lunedì 25 novembre 2019

La fogàra


Oggi le nostre case sono belle, ben isolate, calde, troppo calde forse e ben fornite di ogni conforto. Ma non è sempre stato così. Nei giorni della mia infanzia le case erano più essenziali, meno confortevoli, gli spazi interni erano meno vivibili. Spesso, la sola stanza calda di ogni casa era la cucina, riscaldata dall’immancabile fornèla. Le altre stanze erano riscaldate, all’occasione, da piccole stufe di cotto. Non ci si attardava in bagno, né si viveva in camera. In camera solamente si dormiva e, immagino, si faceva anche l’amore! Però nelle fredde notti d’inverno il letto era caldo, spesso addirittura rovente, perché riscaldato dalla fogàra. Era questa un contenitore di ferro, una sorta di pentola con una manico di legno, sorretta da quattro zampette, che veniva riempito di braci e posto sotto le coperte, nel letto. Verso sera mia madre raccomandava: “Andè a tòre quattro rami che fèmo le bronse per le fogàre”. Così andavamo nella legnaia, in baracca, e prendevamo quattro pezzi di rami di abete per metterli nella fornèla e trasformarli in braci incandescenti. Con una lunga paletta di ferro le braci venivano poi prelevate, poste dentro la fogàra e ricoperte di cenere in modo che la combustione fosse più lenta e più lunga. Si saliva in camera con la fogàra in mano, e spostate le coperte del letto, veniva posta tra le lenzuola la mònega (in alcune zone rurali chiamata anche “prete”!) Questa era una struttura di legno, una sorta di slitta che sollevava le coperte, teneva staccato il materasso e il lenzuolo inferiore dal lenzuolo e le coperte che stavano sopra. In mezzo a questo primordiale sollevatore veniva posta la fogàra, il braciere ardente che, donando la sua anima rovente, trasformava il letto in una nuvola di calore, in una accogliente, calda cuccia! Prima di entrare nel letto, la camera fredda al punto da avere talvolta il ghiaccio sui vetri, si toglievano la fogàra di ferro, che veniva allontanata dalla camera per evitare pericolose esalazioni di gas tossici, e la mònega di legno che veniva appoggiata sul muro o posta ai piedi del letto. Poi si entrava tra le lenzuola, calde, così calde da essere addirittura roventi per i primi, pochi minuti. Poi però il calore ti abbracciava, ti accarezzava e ti avvolgeva invitando, dopo un’ultima preghiera di ringraziamento al Signore, al sonno dolce e ristoratore. Era il duro lavoro estivo del bosco, il taglio e la raccolta della legna, che dava, finalmente il suo benefico, ultimo e atteso frutto. Era davvero, la fine di una fatica, di una giornata, forse la quiete dei pensieri che ogni cuore poteva avere. Per noi bambini era semplicemente la fogàra che faceva parte della nostra semplice, dolce esperienza di vita. Storie di una volta.
Ora, se volete, accendete il termosifone e la termocoperta. Ma nei miei ricordi, solo la fogàra sa accendere la poesia di quelle calde notti, nei freddi inverni di montagna… tanti anni fa.
(Ho scoperto solo recentemente, visitando con i miei alunni il Museo del Palazzon, che raccoglie la memoria e la testimonianza delle usanze e dei costumi degli abitanti di Lusiana, -se potete visitatelo!- perché quella strana ellisse di legno, che ai miei occhi di bimbo assomigliava ad una slitta, veniva chiamata “mònega” o “prete”. Semplice e persino divertente! Quando la mònega veniva posta sotto le coperte, faceva fare al letto una grande… pancia! In quegli anni, le uniche persone che, solitamente, avevano la pancia, le uniche persone ben nutrite erano… le mòneghe (le suore) e i preti! E così per similitudine, il letto con una grande pancia assomigliava, appunto, a una mònega… o a un prete!
Lucio Spagnolo

Nessun commento:

Posta un commento

Girovagando

  Il passo internazionale “Los Libertadores”, conosciuto anche come Cristo Redentore, è una delle rotte più spettacolari che collegano l...