Un
secolo fa, nelle nostre valli, eravamo tutti poveri, ma esistevano
dei poveri che si sentivano più poveri… dei poveri.
La
società contadina era divisa in: “baccani”, poche famiglie,
ricche di terreni; due o tre vacche nella stalla, con una
manza ”pronta” da vendere all'autunno; un mas-cio da 180 chili 'ntel ”staloto”; in caneva, una dozzina de “pesse de
formàjo” su una “tola” appesa al soffitto; un cantòn de patate
e “védi” pieni de vin, novo e vecio... e per questi “làsseghe
pure che néveghe”...
Poi esistevano coloro che possedevano na
vachéta e na cavra... poi quelli che tentavano di sopravvivere
con una sola cavréta... e poi esistevano pure, quelli che
possedevano solo... l'acqua della fontana comunale e l'aria che
respiravano.
Io
facevo parte di quest'ultima categoria, mentre lo zio Bepi, lui, era
proprio il vero “bacàn”. Possedeva terreni a non finire, con
tutto il lavoro che il loro possesso comportava. Si alzava all'alba e
si coricava a notte fonda, sempre a “strussiàre”. Aveva le mani
d'oro, diceva mia mamma, guardando di sott'occhio mio padre, sarebbe
stato capace di fare le ali ad una mosca.
Una
sera, in gual nòte, passo per salutarlo e lo trovo seduto sul prato,
vicino casa, che stava battendo la false. Aveva fra le ginocchia la piàntola
infissa nel terreno fino alle alette e fra le mani, nella destra il
martello, a doppia testa rotonda e nella sinistra la falce,
appoggiata sul bordo della piàntola.
Stava dando filo alla false,
perché a forza di affilarla con la pria, il filo si usava.
Il
“falcaro” lo aveva fatto lui de cornolàro, legno durissimo
e molto resistente. Pesante sì, ma se adoperato con cura...
eterno.
Non si accontentava del solito frassino, più leggero ed
elastico, ma molto più fragile. Se i Macedoni si erano serviti del
cornolàro per far le proprie lance, doveva esserci pure una ragione, affermava.
Domani
mattina vado a tagliare il fieno 'ntel Prà Grande, verresti
a trarlo fora a na serta ora?
Non
crediate che questa fosse una domanda... no, era un ordine. “
Sì sì, zio, doman alle oto a son là. Bona note lora,
a doman.
La
mattina, dopo che i primi raggi del sole avevano asciugato la
rugiada, mi presentai sul prato. Mio zio ne aveva già falciato più
della metà. Era in piedi e
stava tirando fuori dal coàro in puro corno di vacca, la pria
per affilare la falce. Gera ora, mi gridò quando mi vide, xè un bel
toco che el sole xe levà!
Non era un rimprovero, era il
suo buongiorno!
Presa
la forca, pesante, naturalmente con mànego de cornolaro, cominciai
a slargàre il fieno dele ante, sempre sotto il suo sguardo vigile
ed osservatore.
Se
lo zio non parlava voleva dire che lavoravo bene... Ero ben
avanzato...
Mi
fermo un istante per asciugarmi il sudore che colava dal mio viso,
mi giro e vedo che anche lui, arrivato sotto il grande salgàro,
si era fermato, aveva posato la falce per terra, tolto il coàro dalla cintola e lo aveva fissato nel prato. Si
abbassa, prende due bracciate di fieno e ne fa un mucchio.
Va
verso il piede del salgàro, dove scorreva la roda di
acqua, tira fuori la
bottiglia di vino, che aveva messa al fresco, ne leva il tappo e
ne beve una lunga sorsata. Si pulisce la bocca con la manica della
camicia, si china, prende il tascapan con dentro la merenda,
si avvicina al mucchio di fieno, getta sopra la giacca e si siede
sopra. Posa il cappello per terra, apre il tascapan estrae un tovagliolo con dentro tre belle fette di polenta, mezzo
salàdo ed un pezzo di formaggio.
Chi non è svelto a mangiare
non è svelto neanche a lavorare, diceva.
In un lampo aveva
trangugiato la bottiglia di vino, le tre fette di polenta e tutto el
toco de formàjo.
Gli era rimasto un po' di salame. Alza lo sguardo
e vede che sto fissandolo.
Vien qua, grida. Mi
precipito. Prende il corteléto storto, oggetto tutto fare,
taglia due fette di salame di più di due centimetri di spessore.
Ciapa, màgnetele che te te le si guadagnà.
Le
avvolge nella carta da sùcaro in cui prima si trovava il
formaggio e me le porge.
Grazie zio. Sollevai gli occhi al
cielo, come penso fecero gli ebrei nel deserto quando videro
cadere la Manna dal cielo.
Mi
rimisi all'opera con doppia lena per finir presto, sognando alle do
féte de salado che friggevano nella tecia e la polenta che se
brustolàva sule bronse.
Tociàre
un bocòn de polenta calda sul grasso che schizzava dalla carne
cotta... Quasi quasi mi venivano i crampi allo stomaco.
Corro
a casa, apro la porta. Mama, Mama, tìreme fora na tecia!
Per
cosa fare? Lo zio mi ha dato due fette di salame da
mangiare.
Cosa? Quell'anticristo... galo osà magnàre salàdo el véndre e in pì dàrtine
do fete
a tì?
Così dicendo, me le strappa di mano, si gira, apre
il cassettino della credenza, le getta dentro con ribrezzo, dà due
giri di chiave... e se la mette in tasca.
Vedendo
il mio sguardo attonito e sgomento: No te se che xe pecàto mortale magnàr
carne el véndre e ancora pì grave se xe carne de mas-cio?
Ma
te imàginitu tì la facia de don Eugenio quando che te naré a confessàrte???
Ho
mangiato salame un venerdì. Apriti cielo!!!
Non
esiste una penitenza sufficiente per riparare un simile peccato
mortale!!!
Uscii
di casa correndo, maledicendo tutto e tutti, e me stesso perché ero
nato povero, se fossi nato ricco, avrei potuto mangiare sempre... e di tutto, come lo zio Bepi.
Lino Bonifaci