Talvolta,
in sogno, ti capita di vedere un amico, un congiunto. Sei contento di
vederlo, la sua vista ti commuove, gli parli. Poi d’improvviso nel sogno
si inserisce la consapevolezza che quell’amico, quel congiunto è morto.
Così ti svegli con stupore e conservi emozionato quell’improvvisa
rivelazione.
Quest’esperienza, tutt’altro che rara,
potrebbe essere all’origine del culto dei morti, dell’idea che il morto
non sia scomparso dalla tua vita, ma si sia in qualche modo solo
allontanato. Per molte culture la morte è un viaggio e chi lo compie ha
bisogno di cibo, di ori e monili che lo accompagnino.
Il culto dei
morti sembra pratica universale, diffusa tra gli egizi gli etruschi o in
Perù, e antica, se è vero che anche i Neanderthal, nostri cugini
evolutivi, onoravano i morti.
Le
popolazioni nomadi, che non sentivano il bisogno di stazionare
stabilmente in un luogo, avevano un unico punto fisso di ritrovo: il
luogo dove seppellivano i morti (Lewis Mumford, La città nella storia).
Insomma sarebbe nata prima la necropoli e poi la polis.
Maramures
Il Maramures è distretto di confine abitato da popolazioni di cultura
diversa: romeni, ungheresi, ucraini e rom. In uno sperduto villaggio
del Maramures, Budesti, circa 15 anni fa arriva Roberto in uno dei suoi
tanti viaggi. Budesti è piccolo villaggio con una chiesa lignea vecchia
di secoli, risale al tempo in cui Lorenzo Bernini a Roma costruiva le
sue architetture.
Quando Roberto arriva, in un’aia si sta svolgendo un funerale.
Era il funerale della
contadina Joan morta a 76 anni. Presumibilmente Ioan non si è mai
spostata dal suo villaggio. La cerimonia, di rito ortodosso, si è svolta
integralmente nell’aia della casa dove Ioan è vissuta e morta.
Roberto si presenta con la macchina fotografica a tracolla e la
richesta di poter fotografare. La risposta è in una lingua poco
comprensibile, ma il sorriso e il cenno del capo lo capiscono tutti.
Entra nell’aia come uno di loro. I vecchi vengono pianti dai vecchi
che con loro hanno passato buona parte della vita, le donne sono quelle
che più manifestano il loro lutto.
“La
giovane che piange sulla bara è la nipote, alla quale, in occasione di
una visita successiva ho portato le foto che sono state molto apprezzate
perché in Maramures è normale fotografare un funerale“.
La
cerimonia era affollata perché tutto il villaggio partecipava al lutto.
Nell’aia di quella fattoria convergeva tutto il mondo di Ioan.
Gli officianti erano due, aiutati da due predicatori.
La cerimonia è stata molto lunga,
due/tre ore. A causa della lingua non ho capito cosa dicevano i
predicatori e i pope officianti, ma ho vissuto fortemente l’emozione del
momento.
I
bambini partecipano ai funerali con aria stranita e incredula, non
capiscono la morte, non riescono a comprendere il mistero della vita
prima della loro nascita e la possibilità che una persona viva possa un
giorno scomparire.
Dopo la cerimonia, la
bara, portata a spalla da parenti e amici, si incammina verso il
cimitero, un lento cammino con numerose interruzioni segnate dal
bisbiglio delle preghiere e dalla voce dell’officiante.
I gagliardetti rappresentano immagini religiose e al funerale era presente tutto il villaggio.
Dopo la sepoltura il banchetto funebre dove Roberto ha avuto il posto d’onore insieme agli officianti.
Roberto Campagna è fotografo amatoriale, socio e vicepresidente del Circolo fotografico scledense.
Scatta sempre in bianco e nero
con una vecchia macchina a pellicola. Per gli altri le fotografie vanno
scaricate sul disco fisso del proprio computer. Per Roberto la
pellicola va tolta dalla macchina fotografica in un luogo senza troppa
luce, poi si chiude nel suo piccolo laboratorio (“il garage era fin troppo grande e lì in fondo c’era anche la presa dell’acqua“).
Al buio completo inserisce nella tanica la pellicola e gli acidi,
sviluppa il rotolo poi accende la luce rossa a soffitto e comincia a
stampare facendo prove e correggendo qua e là le zone troppo scure o
chiare.
Quasi ogni foto è una stampa perché così si usava una volta.