Toni era tutto orecchi, guardava da dietro i balconi socchiusi della camera la scena, mai gli era accaduto di assistere ad un simile fatto e non aveva mai visto Bepi, suo tranquillo vicino di casa, dare in escandescenze e di matto in maniera così violenta.
Erano da poco passate le due di un pomeriggio torrido di luglio del 1958, e Tony disteso sul letto per il riposo pomeridiano si “ramenava” senza riuscire a trovare “requie”, né chiudere occhio.
La canicola aveva fatto ritirare in casa ogni buon cristiano e per le strade in quelle ore non c’era anima viva, solo polvere e silenzio e in lontananza il tremolio dell’asfalto che sembrava sublimare e perdersi nell’aria.
Non c’era un filo d’aria che entrasse dalle finestre della camera, solo il fastidioso frinire delle cicale riempiva la stanza confuso al gloglottare insistente dei “pai” di Bepi e al verso molesto delle faraone.
Del resto da quattro o cinque giorni era la solita sinfonia e andare a letto era diventato giusto una perdita di tempo, anzi quei rumori che gli impedivano di prendere sonno, lo rendevano nervoso e non vedeva l’ora di alzarsi per andare a governare le bestie in stalla, prima di prendere la bicicletta per recarsi nei campi.
Il “punaro” era proprio sotto le finestre della camera e oltre al rumore, nella stanza, entrava anche una certa spussa de schìti, di letame e di fiori, ma quello non lo infastidiva più di tanto.
“ Scalfudri, dilinquenti, a ve cópo tutti, torme de Berta anca valtri!!! a ve fasso védare mi, a son stufo de sentire quel nome, assassini…..slandrùni”!!!
A queste grida furibonde e allo starnazzare delle bestie che nel “punaro” vorticavano come in un “visinelo” di vento, anche la Maria, la moglie di Toni, si era accostata alla finestra curiosa di capire cosa stesse succedendo.
Appena buttò lo sguardo verso il “punàro”, vide un gran polverone alzarsi dal recinto e Toni, che brandiva un coltello e un palo, rincorrendo i “pai” e le faraone che sembrava un ossesso.
Tutto rosso in viso con un diavolo per capello non si fermava un attimo nonostante la moglie cercasse di calmarlo.
“Sta bon Bepi, cossa ghin polele le faraone e i pai, gesùmaria, càlmete che te fè un colpo!!” raccomandava la moglie preoccupata anche lei dalla scena.
Maria, guardò il marito nella penombra della camera, ma non riuscì ad avere risposte.”
“A gò idea che xé el caldo de sti jorni o el ga ciapà un colpo de sole” disse sconsolato Toni che temeva la furia del vicino come temeva i temporali e la tempesta sui campi.
“Mai visto cussì, gnanca col xé imbriago” commentarono ancora i coniugi nella stanza.
Poi chiusero le finestre e scesero le scale in fretta con l’intenzione di andare dal vicino, per portare il loro aiuto se mai l’avesse accettato; in fondo avevano passato quasi una vita gomito a gomito, con un senso di solidarietà, di soccorso e di complicità tipica di quella società agreste e paesana nell’Italia di quegli anni.
Quando varcarono il pesante cancello di ferro della casa di Bepi, e da distante videro il “punaro”, capirono subito che mezze faraone e tre quarti di “pai” erano stecchiti: un massacro.
“Bepi, sta bon, cossa ghetu, parlòstia, cossa te xé capità ancò” gridò Toni per far capire all’amico che era arrivato e per farlo desistere da quel proposito ormai evidente di sterminare il pollaio, e chissà mai di allargare la mattanza.
Il sangue, le mosche e la polvere facevano da cornice allo spettacolo nel “punaro” protetto dal sole dalle fronde di un grande “figàro”, i cui frutti pendevano maturi e turgidi.
Bepi, all’interno del recinto sembrava un gladiatore che lottava contro quei poveri pennuti che ormai erano ridotti a pochi capi sani, quelli ancora in vita mezzi “desborasà” e sanguinanti, la maggior parte era agonizzante o addirittura morta.
Un po’ alla volta lo scalmanato si calmò, depose le “armi” e uscì piano dal cancelletto che chiudeva il recinto.
Ci fu un attimo di profondo silenzio, solo il ronzare delle mosche a mezz’aria rompeva quell’atmosfera tesa e irreale.
Bepi richiuse dietro di sé il cancello e “spuò” per terra il resto della sua ira e di quell’attimo di follia.
Il cane gli si fece incontro con le orecchie basse e il muso rivolto verso terra, Bepi si abbassò e gli fece una carezza sulla schiena, fu il segno che la burrasca stava passando, che l’ira si stava dissolvendo, per lasciar posto ad uno sfinimento e a una mollezza che ora gli attanagliavano le gambe.
Così, debole e quasi barcollante, borbottando qualcosa che non si capiva, andò a sedersi nell’angolo fresco che lui preferiva vicino alla porta della stalla da cui si intravedevano le vacche allineate ed in ordine, che tiravano la coda di qua e di là per cacciare le mosche.
Tony, Maria e la Isetta, moglie di Bepi, un po’ timorosi si avvicinarono lentamente, sembravano anche loro bastonati, forse temevano un nuovo attacco di rabbia, di quell’ira di cui non conoscevano né il movente, né il motivo.
“Bepi, ghètu bisogno de qualcossa, vuto ca vae tórte un fià de vin?” chiese la moglie
“Portéme un gòto ca gò la gola seca” rispose Bepi “suto suto”.
La moglie corse in fretta a prendere bottiglia e bicchiere e lo porse timorosa e quasi tremante a quell’uomo che stentava a riconoscere in suo marito.
Prese in fretta la bottiglia e a lunghi sorsi la scolò di botto, quasi un litro senza fiatare.
“Pardio, se te gavivi sen!!” sentenziò la donna sempre più esterrefatta e quasi sgomenta.
Bepi, ormai calmato e con il vino che lo aveva dissetato e che piano piano cominciava a dargli una leggera euforia, con le bave che gli colavano dalla bocca pronunciò un nome che uscì chiaro: Giuffrè.
La moglie allora non aveva avuto più dubbi, aveva capito tutto, come del resto aveva immaginato, quando suo marito aveva cominciato a fare quei “bruti sesti”.
Giuffrè in quegli anni era un personaggio noto alle cronache, ormai solo giudiziarie in quegli ultimi mesi, ma il suo nome circolava già da tempo specialmente nelle sagrestie e nelle parrocchie; un uomo che prometteva miracoli economici perché diceva era assistito dalla divina provvidenza.
A poco a poco aveva conquistato la simpatia e la fiducia di organi ecclesiastici anche importanti e con questo biglietto da visita aveva avuto buon gioco per entrare nel credito di molti contadini, piccoli imprenditori e minuscoli commercianti.
Prometteva a chi gli avesse affidato delle cifre di denaro un interesse che andava dal settanta, al cento per cento.
Cifre sicuramente allettanti che invogliavano a consegnare i risparmi anche di una vita, ed in effetti per i primi tempi riuscì ad onorare gli impegni, aumentando a dismisura la sua fama e di uomo benedetto da Dio.
In poco tempo riuscì a racimolare qualche miliardo di lire ed erano molti in quell’Italia ancora povera ed agricola del dopoguerra che stava ancora leccandosi le ferite.
Nel nostro caso, era successo, che il buon Bepi nel tempo, faticando e “strussiando” come musso aveva accumulato una certa somma depositata in posta in buoni fruttiferi del tesoro.
La rendita era bassa, ma sicura, e questo lo rendeva tranquillo e al riparo da eventuali difficoltà che potevano presentarsi nel corso della vita.
Un giorno, parlando con un amico al mercato di Thiene, a cui immancabilmente si recava ogni lunedì, sentì parlare del su citato Giuffè, l’uomo che, come disse l’amico, se non faceva miracoli poco ci mancava: se Qualcuno aveva moltiplicato i pani e i pesci, lui, Giuffrè, moltiplicava i soldi.
Tese le orecchie ingordamente, veder raddoppiare la cifra in poco tempo lo lusingava, arrivò a casa trafelato e confidò la cosa ad Isetta, la quale da buona e sospettosa massaia lo consigliò di informarsi presso il reverendo parroco.
“Don Antonio a son vegnù a la parte parché a go bisogno de un consiglio….” esordì Bepi quando si era trovato davanti al prete con il cappello in mano e quasi timoroso di parlare di un tema tanto vile, quello dei soldi, col prete che di solito si occupava di anime e in breve spiegò il suo cruccio.
Il prete sapeva benissimo chi era il signor Giuffrè e per quello che conosceva era persona affidabile che fino ad allora aveva mantenuto fede agli impegni.
Bepi torno a casa in fretta e rasserenato, anche il parroco sapeva della vicenda Giuffrè e, nonostante non si fosse sbilanciato più di tanto, comunque aveva dato un giudizio positivo su quel banchiere romagnolo.
Il buon uomo allora avvicinò impaziente un emissario che gli era stato consigliato dal solito amico del mercato e gli affidò il gruzzolo, biglietto su biglietto gli contò quasi mezzo milione e a quei tempi, si parla del 1956, era una cifra considerevole.
Isetta cercò di dissuadere il marito, lei non si fidava troppo, pensava che nulla fosse regalato, tantomeno i soldi e con quelle cifre che giravano, doveva esserci qualche inganno.
Ma non ci fu nulla da fare, Bepi, testardo era convinto invece che tutto era limpido, visto che in qualche verso centravano i preti.
Bastava aspettare, avere pazienza, nemmeno tanta infondo, un paio di anni passano presto.
E poi quel funzionario aveva avuto proprio parole buone e rassicuranti, parlava in “talian” e aveva una faccia che pareva proprio un “sagrestan”: “mejo de cussì”, il cerchio quadrava perfettamente per il nostro.
“Ma Bepi, santamadona, sito sicuro da ver fato un bon afare?” chiese l’Isetta, che invece, più il tempo passava, più sentiva che quei soldi erano finiti in mani poco sicure, per non dire disoneste.
“Tasi che no te capisi gnente!! Le fémene, le sta bèn in cusìna a fare la poenta o a laorare in leto o mejo sototera” rispose Bepi in maniera cattiva.
Quando le prime notizie che quel banchiere non aveva rimborsato dei clienti cominciarono a circolare, prima su qualche giornale, poi su tutta la stampa e addirittura in televisione, ormai la frittata era fatta, a centinaia si precipitarono a richiedere indietro i soldi, ma ahimè non ce n’erano più per nessuno.
Il castello messo in piedi dal panciuto banchiere romagnolo era franato su se stesso travolgendo tutto e tutti.
Giuffrè accusò il diavolo, il tradimento di chi gli aveva voltato le spalle, vi furono minacce, bestemmie e lamenti, fu istituita una commissione parlamentare d’inchiesta che vide coinvolti il ministro delle finanze Preti e il suo predecessore Andreotti, ma i poveri cristi ci rimisero tutto.
Questo scandalo servì per cambiare la legge della raccolta del risparmio rendendo più difficoltosa questa pratica da parte dei privati.
Tanti minacciarono il suicidio, altri dissero che se avessero incontrato Giuffrè gli avrebbero tagliato le canne della gola.
Bepi rischiò l’esaurimento nervoso, con l’Isetta che gli “mensonava” i soldi due o tre volte al giorno, in paese che mormoravano, e il prete che “sbusinava”.
Era una ferita aperta che sanguinava, ogni volta che gli veniva in mente Giuffrè era un coltello conficcato nella ferita, un dolore lancinante che lo faceva disperare.
Quel nome non lo poteva più sentire, si era ritirato in se stesso lontano da tutti, pensava di finire al “malincomio”, forse stava per diventare matto.
Aveva bisogno di pace e per questo andava in campagna presto e tornava tardi per stare da solo e non vedere nessuno.
Però, quei "schifùsi de pai" e "quele troje dele faraone" non lo lasciavano in pace, parevano facessero apposta con il loro verso ripetere: Giuffrè, Giuffrè…
Bepi sentiva quel nome maledetto anche nei versi di quelle bestie: era diventata un'allucinazione.
E ad un certo punto Bepi, fece un “smerdaro”nel “punaro”.
Maurizio Boschiero