martedì 31 agosto 2021

Quando parlano i muri..


【Gianni Spagnolo © 21H27】

La recente pubblicazione delle foto di Francesco Lorenzi relativa all’architrave della casa dei Lorenzi-Carnavale in l’Ara e la tradizione che esso provenisse dalla primitiva chiesa di San Pietro, sollecita la riproposizione d'un vecchio post pubblicato cinque anni fa relativamente al primo parroco nativo del paese: Zuanmaria de ser Isepo de Lorenzi (Giovanni Maria di Giuseppe Lorenzi). 

Egli era infatti un chierico e proveniva da una famiglia relativamente abbiente per lo standard paesano. Suo padre Isepo è detto infatti “ser”, titolo riservato un tempo a chi esercitava una professione artigianale e quindi più distinta rispetto ai contadini e ai boscaioli che costituivano la maggioranza. L’avvio agli ordini sacri costituiva allora l’unico modo per far studiare la prole, ma comportava un onere importante per la famiglia, che gli doveva provvedere la cosiddetta “dote ecclesiastica”. Onere che si tramutava poi nell’onore di poter annoverare un figlio sacerdote il quale poi, non di rado, costituiva un traino per la distinzione della famiglia e per orientare agli studi i nipoti. Un figlio prete era dunque un importante investimento per la sua famiglia e le vicende narrate di seguito dimostrano che in quell’occasione lo fosse anche per il paese, dato che l’intera comunità viene coinvolta in una scelta che segna un punto di svolta nella storia ecclesiastica del paese, mettendo fine ad un’epoca di incuria e abusi.

<< .. Correva l’anno 1580 e la parrocchia di San Pietro si trovava vacante e senza cura d’anime. Nel gelido sabato del 16 gennaio, nella chiesa parrocchiale di San Pietro  «in pertinentiis ville Rotii Septem Communium..», si riuniscono una ventina di capifamiglia per eleggere un sacerdote che reggesse la parrocchia e ne officiasse i riti.

Questa è un’assemblea meno solenne di quella che neanche due anni prima ratificò la fusione con Rotzo; si tratta di una vicinìa chiamata a dirimere una questione certamente importante, ma di ambito più circoscritto. Notiamo infatti che tra i convenuti ci sono capifamiglia che non erano presenti a quella precedente, mentre altri mancano. Dal documento appare che all’epoca il piccolo centro, formatosi intorno all'antico ospizio, era già organizzato religiosamente e civilmente. Fino ad allora s’erano succeduti nella collazione del beneficio parrocchiale una serie di sacerdoti foresti (vedremo però in seguito in quale modo esercitassero il loro ministero), mentre ora sembra che non vi sia alcuno disposto a prendersi carico dell’amministrazione religiosa di questa piccola parrocchia situata sui termini settentrionali della diocesi di Padova. A quel tempo la società era genericamente permeata dai principi cristiani, ma la loro istruzione, anche da parte dei prelati esponenti dall’aristocrazia e interessati più al governo secolare che alla pastorale, lasciava parecchio a desiderare. Figuriamoci dunque quale potesse essere la situazione della cura d’anime in territori marginali e poco appetibili come i nostri. Il mercimonio delle prebende ecclesiastiche imperava anche qui come altrove, con la conseguenza di lasciare spesso le piccole comunità periferiche sprovviste di assistenza ecclesiastica.

Proviamo allora ad immaginare come fosse organizzata la pastorale del nostro territorio all'epoca. Innanzitutto va considerato che il modello di sacerdote era ben diverso da quello delineato poi dal Concilio di Trento. Fu infatti questo XIX Concilio Ecumenico, che durò dal 1545 al 1563, che pose le basi per una migliore selezione e istruzione dei preti diocesani, attraverso i seminari, l’introduzione del messale e del catechismo romano, del divieto di cumulare prebende, ecc. Venne stabilito l’obbligo di residenza e della tenuta dei registri parrocchiali e tutta una serie di prescrizioni volte ad assicurarne il rigore dottrinale e risollevare Chiesa Cattolica dallo stato di simonìa e corruzione in cui l’aveva trovata e giustamente biasimata la Riforma Luterana.

I libri di storia locale ci informano di come fossero un tempo diffusi sul nostro territorio i preti ultramontani (tedeschi, ma non solo), a significare che in tali paesi si parlasse il cimbro e che necessariamente il prete doveva darsi da intendere in quella lingua*. Vediamo di approfondire meglio questo fatto e di farne una lettura meno superficiale e deterministica: le collazioni (nomina del titolare del beneficio) delle parrocchie venivano allora effettuate dal Vescovo ad ecclesiastici che badavano più alle rendite dell’ufficio, fra l'altro cumulabili, che al loro ministero e che spesso subappaltavano la cura d’anime a  terzi o non se ne curavano affatto, lasciando a se stesse le comunità più povere e disagiate.

Né è prova eloquente lo stato della parrocchia di San Pietro precedente a questa assemblea. Il beneficio parrocchiale [Il Parroccato, che rendeva allora 80 ducati complessivi all'anno] era stato assegnato ad un tal don Giuseppe Fontana di Vicenza, il quale aveva l’aveva subappaltato a suo cugino don Giambattista Fontana per 10 ducati l’anno. Questo suo parente risiedeva anch'egli a Vicenza e aveva affidato l’incombenza ad un cappellano sessantenne di Canove, don Michele Sterchele*, che pagava con 16 stari di frumento, 6 mestéi di   vino e 13 matapan  (ducati d'argento) l’anno. Il baldo cugino s'intascava così allegramente la differenza standosene in città.  Questa fu la situazione che trovò il Visitatore Vescovile Mons. Girolamo Vielmo; per non parlare della chiesa <desolata e in tristissime condizioni>. Al parroco titolare fu quindi imposto, sotto pena di scomunica, di risiedere a San Pietro o di mantenervi stabilmente un prete. Piuttosto che farlo, il sacerdote rinunciò all'incarico, dopo ben 20 anni di questo furbesco andazzo. Il rettore successivo, tal  Francesco de’ Priorati di Vicenza percepiva 24 ducati, ma di sicuro neppure lui presidiava di persona l’ufficio ecclesiastico di San Pietro. Infatti la casa canonica è detta <rotta e desolata> nelle cronache del tempo.

I preti  germanofoni erano riuniti in consorterie e gestivano sul territorio una sorta di monopolio, passandosi fra loro i benefici delle parrocchie e tenendosi informati sul giro di prebende che vi gravitava. Questi erano sacerdoti girovaghi, dall’incerta preparazione dottrinale e a volte anche dai costumi discutibili e dalla dubbia ordinazione, ma avevano almeno il pregio di risiedere in loco accontentandosi delle rendite meno appetite dal clero diocesano. In tempi in cui la lingua ecclesiastica era il latino, le funzioni prevalentemente rituali e  dove il prete esercitava meno quel ruolo sociale che assunse dopo il Concilio di Trento, il fatto che egli parlasse la lingua locale e risiedesse in loco, era un aspetto che interessava assai poco al Vescovo che dispensava gli incarichi. Prova ne sono le accorate interpellanze rivolte alle curie da alcune parrocchie della montagna vicentina affinché considerassero anche questo aspetto. Restando a San Pietro, sono persuaso che ben pochi dei preti titolari del beneficio elencati nei libri di storia paesana prima del Concilio Tridentino abbia messo piede in parrocchia, se non per riscuoterne le rendite o in occasione di qualche visita vescovile; in alcuni casi documentati nemmeno in quella. È dunque su una situazione di grave disagio ed emarginazione che i Nostri sono chiamati a decidere in questa riunione, della quale trascrivo letteralmente il verbale rispettandone la sintassi di redazione:

«Essendo che il beneficio et chiesa de S. Piero di Val d'Astego al presente si trovi vacante et senza curato, et desiderando li infrascritti homini habitatori di detto loco di  S. Piero di provvedersi di uno sacerdote e habia da officiare, in vita sua, in detta chiesa et haver cura di amministare al detto populo et regere et gubernare detta chiesia et populo como buoni cristiani timorosi del Signor si chiede, et considerata la buona vita et costumi del prudente et religioso giovane mess.  Zuanmaria fiolo de ser Isepo de Lorenzi, del detto loco de S. Piero, il quale desidera de farsi sacerdote, et havendo havuto anco li ordini quattro minori. Et havendo vuto piú volte ragionamento con detto Zuanmaria et con il detto suo padre circa le cose predette..., Zuanmaria et padre hanno promesso alli tutti homini che, quando esso Zuane potesse ottenire il beneficio predeto, saria buon rector et governatore et faria con ogni diligentia l'officio di buono et religioso sacerdote; non solamente in tenire regulata la detta eclesia et sue intrade...».

Approvano all’unanimità la scelta di Zuanmaria i seguenti capifamiglia di San Pietro:

«Lunardo q. Facin de Lorenzi, ser Marco q. Antonio dalla Costa, Francesco q. Baptista janexin, Zuane q. Barth. de Janexin et Zulian suo fratello, Francesco q. Zuane de Lorenzi, Zuanmaria q. Francesco Spagnolo, ser Baptista q. Cristoforo de Toldo, Toldo q. Lunardo de Toldo, Zuanmaria q. Cristoforo de Toldo, Girolamo q. Stefano de Gavexena, Antonio q. Baptista de Janexin et Piero suo fratello, Zuane q. Luca de Toldo, Baptista q. Barth. de Janexin, Domenego Lorenzo de Facin, Bernardo q. Zuanpaulo dalla Fontana, Lunardo q. Baptista de Facin et Baptista q. Mattio della Campagna».

Tutti i suddetti uomini:

«padri di famiglia, sustinenti li cargi et facion con detto colonello et facendo per sé et heredi suoi et per nome del colonello (di S. Pietro), 'de uno animo hanno laudato,.,»

Notiamo che la sensazione di abbandono è talmente grave che questi uomini investono un chierico studente di appena 19 anni, che è professo ma non ancora sacerdote, affinché prometta di prendersi cura della parrocchia con dedizione ed onestà, chiamando a garantire il patto con i suoi compaesani pure suo padre Isepo, dato che Zuanmaria è ancora minorenne per la legge d’allora. Si riferiscono ad accordi precedentemente avuti con il giovane e suo padre circa l'argomento: «Et havendo vuto piú volte ragionamento con detto Zuanmaria et con il detto suo padre circa le cose predette,.,», a significare quanto stesse loro a cuore che fossero ben comprese ed interpretate le ragioni del "contratto" che stanno stipulando con il ragazzo e quante attese riponesse in lui la comunità tutta.

I Sanpieresi stanno infatti facendo un investimento sul loro futuro, appoggiandosi ad una famiglia di riguardo del paese affinché un suo giovane esponente si faccia carico di una esigenza comunitaria sentita come irrinunciabile. Si avverte qui un primo riflesso delle nuove costituzioni del Concilio di Trento, terminato nel 1563, ma che comincerà ad aver effetti solo dal secolo successivo e che tanta parte ebbe nel rinnovamento della Chiesa Cattolica, sferzata a sangue dalla Riforma Protestante. Fu anche per il pericolo della diffusione della Riforma che i Vescovi serrarono i ranghi e incoraggiarono l'adeguata formazione di un clero locale, sospettando che i chierici stranieri ne potessero essere tramite.

Zuanmaria venne in seguito ordinato sacerdote, assumendo il rettorato della parrocchia solo tre anni più tardi, nel 1583. Del suo parroccato, durato 17 anni,  sappiamo purtroppo poco, ma sicuramente tenne fede al suo impegno e dette lustro alla sua terra, alla sua famiglia e al suo ministero. Riuscì infatti a realizzare quello che a nessuno dei suoi predecessori fu possibile o forse passò mai per la mente, ovvero costruire una nuova chiesa dopo oltre seicento anni (La seconda Chiesa, del 1585). Qualche anno più tardi e certamente su suo impulso, venne ordinato sacerdote un altro chierico locale, Lunardo Toldo, che nel 1596 fu eletto parroco di Brancafora*.

Fu verosimilmente il corale appoggio della comunità che gli consentì di portare a termine l'edificazione della nuova chiesa, che per il paese dovette essere un evento di assoluto impegno e novità. La chiesa precedente, che pare fosse ancora quella originaria, aveva l’abside rivolto a levante e con l’aspetto di una modesta cappella in stile romanico a due anditi. Dovette essere una costruzione  assai spartana e angusta, avendo una superficie al piano terra di soli 32 mq per un'altezza di appena due metri ed era detta priva di pavimento, con il fondo in terra battuta. Disponeva stranamente anche di una cappella superiore, sostenuta da un pavimento a volto poggiante su tre colonne, probabile lascito della sua originaria funzione ospitaliera o forse, più tardivamente, monasteriale.

Zuanmaria Lorenzi costruì un tempio più grande, ma sempre con il coro rivolto ad est all’uso antico, che durò per i successivi due secoli. Inizialmente non era dotato di campanile, ma di un'edicola sulla sommità della facciata che conteneva tre piccole campane. Anche gli altari laterali, le decorazioni e gli arredi liturgici vennero poi aggiunti gradualmente secondo le possibilità della comunità. ..>>

Torniamo ora al tema iniziale, ossia al reperto dell’architrave della casa dei Lorenzi Carnavale in l’Ara. Joani Carnavale esercitava in quella bottega l’arte del falegname, ma era anche bottaro, ruaro e mobiliere, esprimendosi a tutto campo nella lavorazione del legno. Il suo laboratorio era provvisto anche di una fucina e di un tornio in legno a pedale e operò fino agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. Siamo dunque a quasi quattrocento anni di distanza dagli eventi narrati, ma è probabile che Joani portasse avanti un mestiere che era tradizionale nella sua famiglia da secoli, fin da quel ser Isepo padre di Zuanmaria. Quel giovane prete, che prese in mano la parrocchia a ventitrè anni e all’edificazione della nuova chiesa a venticinque, dovette sicuramente avere nel padre un supporto fattivo e nella comunità un significativo aiuto per risollevare le sorti di una parrocchia allo sfacelo. La chiesa originaria era molto piccola e strutturata su due piani e dovette essere distrutta e riedificata a nuovo su una pianta più estesa. Gli elementi architettonici lapidei risultanti dalla demolizione, quali pilastri, stipiti ed architravi, forse non erano proporzionati al nuovo tempio e vennero perciò riutilizzati nelle costruzioni civili. Ecco che quindi non è inverosimile che l’architrave dell’antica chiesa fosse stato impiegato per il portale della casa dei Carnavaj. Era infatti questa la storia che Joani raccontava orgogliosamente a chi vistava la sua bottega, andando con lo scalpello a ricalcare i solchi di quella suggestiva iscrizione quasi ad evocarne la paternità.

L’iscrizione riporta la data del 1588 e il cristogramma IHS e pertanto  la scritta non può risalire alla primitiva chiesa di San Pietro; si possono dunque immaginare due scenari:  

1) L’architrave e gli stipiti provengono proprio dalla chiesa cinquecentesca edificata da don Zuanmaria e demolita alla fine del Settecento per far posto alla terza chiesa. La seconda chiesa è documentata nel 1585, ma sicuramente il suo completamento richiese più tempo e perciò ci può stare la data del 1588, magari relativa alla sua consacrazione. 

2) I reperti provengono dalla chiesa primitiva e l’iscrizione fu incisa in occasione del loro inserimento nella casa dei Carnavaj, magari girando le pietre in maniera da presentare la faccia pulita.

Nel primo caso avremmo che la casa dei Carnavaj fu edificata (o modificata) alla fine del Settecento, in concomitanza con la demolizione della chiesa cinquecentesca. Il fatto che la porta sia quella della bottega al pianterreno e non quella d'ingresso della casa sul pergolo, farebbe propendere per questa evoluzione.

Nel secondo caso la casa sarebbe stata edificata alla fine del Cinquecento accogliendo i reperti della chiesa originaria. Se fosse così è probabile che le facce murate degli stipiti e degli architravi rechino i segni dei vecchi cardini e forse anche qualche originario simbolo.

Per il momento possiamo fare solo supposizioni, auspicando che magari in futuro si presenti l’occasione di approfondire l’argomento e sciogliere l'enigma. 

* Il cappellano da Canove del 1563, parlava sicuramente il cimbro, come pure il suo collega da Lusiana o il Raus da Vallarsa e altri che officiarono a San Pietro nel tempo come supplenti dei rettori titolari indicati negli archivi diocesani. I cugini sacerdoti Fontana o don de' Priorati da Vicenza certamente non ciauscavano affatto, ma a quanto pare nemmeno bramavano di dialogare con il gregge loro affidato. Questo per dire che certe deduzioni semplicistiche che spesso sono state tratte e scritte basandosi su un'interpretazione frettolosa degli elenchi curiali, andrebbero forse meglio motivate. 






SNOOPY


 

lunedì 30 agosto 2021

Pieréte, sghinse e argagni

Gianni Spagnolo © 21H23

L’attrezzo illustrato in foto ha diversi nomi, ma mi pare che da noi fosse comunemente chiamato pieréta. Era costituito infatti da una pietrina sostituibile, compresa da una molla, che veniva fatta sfregare su una superficie zigrinata di acciaio cementato per produrre delle scintille che accendessero il fornello a gas domestico, cuélo con la bonbola de Catinòn, tanto par capirse.

Questo era già un accendino sofisticato, che otteneva lo sfregamento tramite un complesso marchingegno, ossia un pulsante che agiva su una stellina che trasmetteva il moto circolare ad un alberello. Alti modelli erano più spartani, come  quelli usati nelle officine per accendere la fiamma ossidrica.  Pincionare cola pieréta era il mio sport preferito quando aspettavo che fosse pronta la cena, attirandomi le ovvie reprimende di mia madre, parvia che se fruàva la pieréta. Fruare par gnente era ancora il male assoluto. Il meccanismo pareva difatti congegnato apposta per attirare l’attenzione dei maschietti propensi all’ingegneria. Le pieréte di ricambio erano sparse pai scafiti, contenute in cilindretti trasparenti di vetro prima e di plastica poi e servivano anche per gli accendini a benzina da tasca, parvia che lora i fumava tuti. Questi moderni congegni non erano riusciti tuttavia a sostituire del tutto  i fuminanti, datosi che cola pieréta a no se podéa miga inpissare la stua, ma ghe volea el fogo vivo.

Erano comunque la versione moderna di un attrezzo antico: l’acciarino. Pare che già nel Paleolitico superiore, ovvero circa 14 mila anni fa, l’uomo fosse in grado di produrre fuoco attraverso la percussione di pietre piritiche. Successivamente assieme alla pirite iniziano a rinvenirsi pezzi di esca, in particolare di un fungo: il  fomes fomentarius. Ne da testimonianza la mummia del Similaun (più comunemente conosciuto come Ötzi, vissuto oltre 5000 anni fa), dove furono rinvenuti, nascosti all’interno di una sacca cucita alla cintura, dei pezzi di fomes fomentarius con schegge di pirite sulla sua superficie, residuato di molteplici accensioni. Pare che Ötzi, una volta acceso il fuoco percuotendo un pezzo di pirite contro della selce, si fosse portato dietro dei frammenti di fungo già accessi (avvolti in foglie di acero fresche per mantenerlo asciutto) dai quali ricavare, nel momento del bisogno, piccoli pezzi di braci già accese pronte per produrre fiamme. 

L’uso dell’acciarino in acciaio per accendere il fuoco va ricondotto alla tarda età del ferro, in relazione alla capacità di produrre acciaio con un sufficiente tenore di carbonio. L’acciarino era quindi percosso contro una selce, esattamente come si faceva con le piriti. Tale strumento nacque inizialmente come bene destinato ai più facoltosi, per divenire poi uno strumento indispensabile per ogni persona lontana da un focolare già acceso; va ricordato infatti che in passato il fuoco raramente veniva lasciato spegnere completamente  nei villaggi, essendo più pratico propagarlo da un fuoco acceso piuttosto che generarlo a nuovo.


Non é più tra noi - nr. 9 - 08/21 - Maria Teresa Righele








 

SNOOPY

 


domenica 29 agosto 2021

La S. Messa per i cento anni della chiesetta di San Rocco a Scalzeri di Pedemonte concelebrata da don Gino, don Olivo e don Fernando

 

















tutte le foto di Francesco Lorenzi


La pagina della domenica

 


29 agosto 2021

Mc 7,1-8.14-15.21-23
XXII Domenica nell’anno
di Luciano Manicardi

In quel tempo Si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:

Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.

Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».  Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro». [Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall'interno e rendono impuro l'uomo»




Il testo evangelico odierno è costituito da un brano di Marco molto frammentato e questo intralcia una comprensione piena del testo che costituisce un’unità letteraria dal v. 1 fino al v. 23 e che può essere posta sotto il titolo di “Discussione circa il puro e l’impuro”. Il brano, infatti, è racchiuso in un’inclusione fra il sostantivo “impuro” (Mc 7,2: koinòs) e il verbo “rendere impuro” (Mc 7,23: koinóo). Ora, se giustamente il criterio del Lezionario liturgico è quello del taglio, tuttavia i tagli espongono inevitabilmente il testo a comprensioni parziali, certamente impoverite. Per esempio, nel nostro caso, il taglio liturgico esclude il forte ammonimento con cui Gesù rimprovera i farisei di “annullare la parola di Dio” (Mc 7,13) con la tradizione da loro tramandata. Ammonimento che, ovviamente, non si limita ai farisei ma si applica a situazioni vissute dai cristiani e dalle chiese. È dunque consigliabile che il credente legga personalmente per intero il testo di Mc 7,1-23, per una comprensione più adeguata del messaggio evangelico.

Una seconda avvertenza preliminare è opportuna prima di leggere il nostro testo. Mc 7,1-13 presenta una discussione di Gesù con i farisei e gli scribi, dunque con rappresentanti religiosi del giudaismo dell’epoca. La specificazione che gli scribi erano “venuti da Gerusalemme” (Mc 7,1; cf. Mc 3,22), sottolinea il carattere ufficiale e autorevole di una delegazione inviata dal Sinedrio. Il testo presenta una discussione in cui Gesù entra in aperto conflitto con scribi e farisei arrivando anche ad apostrofarli come “ipocriti” (Mc 7,6). Di fronte a tutto questo, è importante non fare di questo brano evangelico l’occasione di predicazioni o annotazioni antigiudaiche o anche solo di commenti caricaturali che presentino un giudaismo legalista, esteriore e formale, a differenza di un cristianesimo spirituale e interiore. Già il testo di Marco si esprime con una certa approssimazione (si pensi alla generalizzazione “tutti i giudei” del v. 3: in realtà la prassi di lavarsi le mani prima di mangiare, all’epoca di Gesù, era solo di una parte e probabilmente minoritaria di gruppi farisaici che estendevano al quotidiano le norme di purificazione sacerdotale), e comunque, da un lato, la tradizione cristiana ha conosciuto essa stessa fenomeni analoghi a quelli qui denunciati e, dall’altro, importante è cogliere queste parole come rivolte a noi oggi e trovarne un’ermeneutica adeguata. Non ci si dimentichi mai che Gesù è ebreo e lo è per sempre.

L’apertura del nostro brano vede il riunirsi di farisei e scribi intorno a Gesù (Mc 7,1). Il lettore “sente” un clima teso e minaccioso. Del resto i farisei erano già comparsi in Mc 3,6 quando con gli erodiani “tennero consiglio contro Gesù per farlo morire” e una delegazione gerosolimitana di scribi si era già presentata a Gesù in Mc 3,22 accusandolo di essere indemoniato e di scacciare i demoni per mezzo del capo dei demoni. In ogni caso, la presenza di farisei dice che si avrà a che fare con questioni pratiche, problemi di condotta, di halakah, e quella degli scribi che ci saranno questioni di tipo teologico. In effetti, alla questione del prender cibo con mani non lavate (Mc 7,1-5) si accompagna il ricorso alla Scrittura e il problema della sua ermeneutica (Mc 7,8-13). La domanda rivolta a Gesù riguarda in realtà non tanto lui, quanto il comportamento di “alcuni suoi discepoli” (Mc 7,2): “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?” (Mc 7,5). Il lettore di Marco ricorda l’analoga domanda posta a Gesù nel capitolo secondo: “Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano e i tuoi discepoli non digiunano?” (Mc 2,18). Sono domande pratiche riguardanti il digiunare e il mangiare. Gesù viene ancora interpellato dai farisei sul comportamento dei suoi discepoli che fanno ciò che non è lecito in giorno di sabato strappando delle spighe (Mc 2,23-24). Il movimento dei seguaci di Gesù è caratterizzato da una certa disinvoltura nei confronti di pratiche e osservanze tradizionali, da una libertà che Gesù motiva come obbedienza all’intenzione profonda del comando di Dio e come rispetto radicale dell’essere umano che del Dio creatore è immagine e somiglianza (“Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”: Mc 2,27). Inoltre tale libertà si fonda sulla novità che Gesù stesso rappresenta ed è venuto a portare con la sua stessa persona (“Finché hanno lo sposo con loro non possono digiunare”: Mc 2,19). La novità di Gesù diventa nei suoi discepoli coscienza di percorrere una strada nuova e dunque di potersi muovere con margini di libertà nei confronti di determinate pratiche e osservanze tradizionali. Osservanze giudaiche che Marco, che scrive per destinatari ignari di simili usanze (la comunità cristiana di Roma), deve spiegare anche a costo di qualche banalizzazione (il sistema rituale ebraico di puro e impuro - che ha connotati anche etici ed è connesso all’alleanza con Dio - ridotto al lavarsi o meno le mani: Mc 7,2). Ma l’esempio serve per introdurre il problema di fondo, che sottostà anche ad atteggiamenti ben più gravi e rilevanti sul piano etico, come quello riportato in versetti omessi dalla pericope liturgica circa il korbàn, cioè l’offerta a Dio (Mc 7,9-13), e per fondare le dure parole di Gesù in pieno stile profetico e che a un profeta – Isaia – si richiamano. Parole che denunciano l’ipocrisia di chi separa “labbra” e “cuore” (Mc 7,6), di chi vive una fede parolaia senza adesione profonda, di chi compie gesti cultuali imparati a memoria ma non vissuti nel profondo (Mc 7,8). Rischio dell’azione liturgica è di ridursi a spettacolo, a teatralità, a prestazione, a recitazione, ad azione meccanica che va da sé, a esteriorità. E Gesù sottolinea che fonte di impurità non sono i cibi che entrano nell’uomo (“Così rendeva puri tutti gli alimenti”: Mc 7,19), ma i pensieri e le azioni che sgorgano dal cuore dell’uomo e di cui viene dato un lungo elenco (Mc 7,21-23). Tuttavia il discorso di Gesù non si limita a condannare una esteriorità scissa da una interiorità. Noi siamo sia esteriorità che interiorità. Compito spirituale è quello di non separare ciò che Dio ha unito, ma di conservarlo unito: possiamo intendere interiorità ed esteriorità (anima e corpo, interiorità e sensibilità, spirito e materia, ascolto e visione) come dimensioni non opposte, ma interagenti in uno scambio in cui l’una dimensione prega l’altra di donarle ciò che non è capace di darsi da sé.

Tentando un’ermeneutica del nostro testo possiamo affermare che il suo messaggio centrale consiste nel chiedere discernimento tra l’essenziale e il periferico, tra il prioritario e il secondario. E i due cardini su cui si fonda il discernimento di Gesù sono il comandamento di Dio (cf. Mc 7,8) e il cuore dell’uomo (cf. Mc 7,6.21). Ovvero, la parola di Dio e l’umanità dell’uomo, “il vangelo eterno” (Ap 14,6) e il volto dell’uomo. La parola di Dio ha come mèta il cuore umano e tende a suscitare una risposta che sia di tutto l’essere, senza divisione tra lingua e cuore, tra dire e fare, tra esistenza e culto. L’affermazione di Gesù circa l’origine interiore, nel cuore, di ciò che rende impuro l’uomo, è importante perché lega l’impurità al peccato, che è allontanamento dalla parola di Dio e fallimento umano. Soprattutto invita il credente a ricercare in sé l’origine del male che compie e a non rifugiarsi in sistemi di autogiustificazione in base a cui si accusano gli altri per discolpare se stessi.

Le parole evangeliche riguardano usanze giudaiche, ma il meccanismo denunciato da Gesù è attivo in ogni sistema religioso e facilmente individuabile anche nel cristianesimo. Occorrerebbe sempre passare al vaglio del vangelo le priorità che noi cristiani ci assegniamo: sul piano pastorale o morale o altro ancora. E occorrerebbe sempre porsi la domanda: che cosa è davvero irrinunciabile, talmente centrale da non poter essere tralasciato nella vita e nell’annuncio cristiano? Come criterio di discernimento essenziale e minimale al tempo stesso, va ricordato ciò che diceva Isacco della Stella: “È la carità, l’agape, il criterio di ciò che nella chiesa deve essere conservato o cambiato”. Questo discernimento è importante all’interno di una riforma ecclesiale che cerca di riportare all’essenziale e all’irrinunciabile il vissuto di fede. La dialettica fra comandamento o parola di Dio e “tradizioni”, presente nelle parole di Gesù, è echeggiata dai Padri della chiesa che distinguono verità e consuetudine. “Nel Vangelo il Signore dice: Io sono la verità. Non dice: Io sono la consuetudine” (Agostino). Il rischio è che la consuetudine prevarichi sulla verità divenendo tradizione immutabile e sacralizzata quando altro non è che cattiva o pessima abitudine: “La consuetudine non deve impedire che la verità prevalga. Infatti, la consuetudine senza la verità è errore inveterato” (Cipriano). Una consuetudine, magari nata “da una certa ignoranza o da dabbenaggine, con l’andar del tempo si radica sempre più e si trasforma in prassi abituale, e così ad essa ci si appella in opposizione alla verità” (Tertulliano). E così, una pagina che affronta tematiche distanti dai nostri vissuti e dalla nostra sensibilità si svela incredibilmente attuale e capace di parlare al nostro oggi ecclesiale.

L'angolo della Poesia



La luce è cambiata 

e d'improvviso l'estate 

ha un altro sapore,

né buono né cattivo, 

come quando al mare 

raccogli le cose per andare via

o come quando ti fermi a pensare 

con gli occhi che volano altrove 

entrando in un'altra dimensione.


Francesca Stassi



SNOOPY


 

sabato 28 agosto 2021

Annullato il mercatino di Rotzo


 Domenica non ci sarà il mercatino cimbro e nemmeno la proiezione di diapositive sulle montagne, in programma stasera. La biblioteca è chiusa oggi e domani, poi si vedrà. E' un piccolo segno del nostro grande dolore, della condivisione con il dolore, immenso, che ha colpito la famiglia di Aldo. L'intera nostra Comunità è in lutto e ci sentiamo affranti, storditi dalla crudeltà della vita, che ha saputo tragicamente accostare un momento di gioia e di serenità familiare al punto di massima disperazione possibile, senza un intermezzo che possa almeno graduarne gli effetti. Ci sentiamo immensamente vicini alla moglie Barbara e ai figli Lucrezia e Cesare e ci stringiamo virtualmente a loro, con un abbraccio così stretto da penetrarli fino al cuore, segno di vicinanza, condivisione, affetto.

Biblioteca civica di Rotzo

L'alta Via della Grande Guerra










C'è un territorio, dove la natura diventa storia e memoria. Sono le Prealpi Vicentine, che custodiscono uno dei più grandi patrimoni della Grande Guerra, fatto di trincee, Forti, camminamenti sentieri, emozioni. 

La Provincia di Vicenza, la Regione Veneto e 35 comuni del territorio hanno deciso di creare l'Alta Via della Grande Guerra: un percorso che unisce i 4 Sacrari militari: del Pasubio, del Cimone, di Asiago e del Grappa. 

Presso il Piazzale della Vittoria a Monte Berico, si è tenuta la conferenza stampa per fare il punto sullo stato dei lavori.

Valdastico, comune interessato per posizione geografica, per avvenimenti storici, per mantenere viva la memoria e trasmetterla alle future generazioni era presente!

Il Sindaco di Rotzo, Aldo Pellizzari, non è più tra noi...

Molti della nostra Comunitá di Valdastico lo ricorderanno senz'altro così. Dicembre 2019

Una vacanza con la famiglia per ristorarsi e prendere fiato dopo mesi di fatiche lavorative e amministrative: era questo l’intento di Aldo Pellizzari, 52 anni, Sindaco di Rotzo dal giugno 2016 per il quale un momento di felicità circondato dagli affetti si è trasformato in tragedia, perdendo la vita nelle acque di Castiglioncello nel comune di Rosignano Marittimo (Livorno).

E’ accaduto nel tardo pomeriggio di oggi venerdì 27 agosto quando Pellizzari si trovava da solo intento a fare un bagno in questo apprezzato tratto della costa toscana: l’annegamento pare da attribuirsi ad un malore improvviso e a nulla sono valsi gli interventi di alcuni bagnanti che hanno notato la scena, nè i soccorsi prontamente allertati e giunti sul posto sia con mezzi della guardia costiera che con l’ausilio dell’elisoccorso i cui medici altro non hanno potuto che constatarne il decesso.

Del recupero della salma è stato intanto incaricato il servizio di onoranze funebri della Pubblica Assistenza di Rosignano, in attesa di riportare il Sindaco nella ‘sua’ Rotzo: proprio in questi giorni si attendeva una sua pronuncia sulla volontà di riproporsi per un secondo mandato, anche se alcuni malanni nei mesi scorsi pare non lo vedessero particolarmente convinto forse perchè consapevole anche per cause lavorative di non poter dare quel ‘massimo’ che invece aspirava di poter dedicare alle faccende della comunità che tanto amava.

Incredulità e dolore nei Sette Comuni altopianesi e a Rotzo in particolare dove in serata il suo vicesindaco Caterina Zancanaro è stato uno dei primi a ricevere la terribile notizia: “Siamo assolutamente sconvolti e tutti senza parole. Abbiamo passato cinque anni fianco a fianco senza che passasse un giorno senza sentirci. C’era una grande fiducia reciproca che si era costruita in questi anni, era un amico, una persona sensibile e sempre disponibile. Adorava i figli e la moglie, erano il suo orgoglio. Ha dato tanto alla comunità di Rotzo in questi cinque anni, si è speso senza risparmiarsi mai. Mancherà a tutti noi immensamente”.

Marco Zorzi-altovicentinonline

Il retro della Chiesa di San Pietro

Parlando con le Persone ho scoperto che ce ne sono parecchie che ignorano il nome di tante Vie di San Pietro...
Prossimamente faremo l'elenco😊
Intanto qui sotto abbiamo il "Belvedere Pincio" (che come nome di un retro chiesa a fantasia si sono sprecati😊) con il particolare della "balaustra con spunciotti" (no me vien in italian come che i se ciama😉) dal quale si può godere di un panorama di tutto rispetto. Era un appuntamento fisso per noi abitanti della piazza quando durante piogge abbondanti si andava a vedere l'Astego che xè na fora... oppure era uno spazio usato sempre dagli uomini per le loro chiacchiere prima della Messa😉...
Poi vabbè... c'era pure il Vespasiano e il garage della 600 celestina di don Francesco Zago e il passaggio per andare ai "slìssighi" a giocare o anche come sentiero che portava al cinema e non solo. 







 

Le Malghe dell'Altopiano patrimonio dell'UNESCO?

da: GdV

 

La Gioa da un'angolatura insolita - arco del campanile

 

foto di Gianna Nicolussi

MIX - di tutto un po'...


Quando "segàr le tole" era un'arte...

di Milo Boz/Paolo Zambon




ARSENALE DI VENEZIA, 1720, INSEGNA DELLA CORPORAZIONE DEI "MARANGONI" (Falegnami) E, A LATO DEL LEONE ALATO, GLI STEMMI DELLE ARTI.
LE INSEGNE UN TEMPO ERANO CONSERVATE AL PALAZZO DEI CAMERLENGHI ASSIEME ALLE "MARIEGOLE" (Capitolari), alle Sedi, Chiese, Arti e Mestieri associati.



Il disegno illustra la produzione di tavole da un fusto di quercia con una tecnica rimasta sostanzialmente immutata dal tempo dei Romani fino a pochi decenni orsono. 
La sistemazione dei cunei nelle fenditure realizzata dalla sega, tenendo divaricate le due parti del tronco, permetteva alla lama di scorrere nel taglio. [MCVE – Museo Civico Correr VE].

Le Autorità veneziane deliberarono, a partire dal 1489, soprattutto allo scopo di controllare lo sviluppo della risorsa legnosa ad uso dell'Arsenale e di incrementarne la disponibilità nei Domini della Repubblica, la formazione di inventari o catasti forestali, con particolare riguardo ai patrimoni boschivi di quercia, farnia e rovere.

Con il catasto Surian del 1568, sicuramente il più accurato documento, il dettaglio dei rilievi portò a classificare le querce in quattordici classi diametriche di mezzo piede in mezzo piede (un piede = 34,8 cm). Oltre a questo, il catasto forniva almeno altre dieci informazioni diverse, fra le quali l'uso cui ciascuna pianta era più adatta nelle costruzioni navali.

Notevole problema era rappresentato dal trasporto dei tronchi. Le querce, per l'elevata densità del legno, non possono galleggiare e pertanto non potevano “fluitare” lungo i corsi d'acqua, in primis il Piave, ma dovevano essere sistemate, in numero limitato, su zattere costruite in legname di conifera, aumentando in tal modo i costi di trasporto, i quali risultavano comunque inferiori a quelli di trasporto su carri per le strade ordinarie. Per il trasporto di una sola pianta di quercia, infatti, potevano essere necessarie fino a 20 coppie di buoi, e i lavori di esbosco erano pagati secondo il numero di “carizzi”, cioè le opere giornaliere di un paio di buoi necessarie a portare i tronchi fino agli approdi posti lungo i fiumi.
(segnalato da Augusto Giacomelli - caramela)


L'angolo della Poesia



Vorrei parlare d'amore

con la leggerezza dei vent'anni,

il vento in faccia e non temere niente,

con la paura chiusa in una stanza 

di cui non si possiedono le chiavi.


Vorrei ritrovare l'incoscienza

di chi non si ferma mai a pensare,

agisce d'istinto senza farsi male,

audace al punto giusto nel tempo giusto.


Vorrei parlare d'amore semplicemente,

dire a malapena quel che so 

dato che gli anni chiariscono ben poco

del caos, degli inganni, delle emozioni,

del tempo speso ad aspettare.


In fondo si resta principianti

nel sentimento più bello del mondo,

meraviglia e sconcerto nello stesso istante.


Francesca Stassi




Potenza del nome

[Gianni Spagnolo © 25A20] A ben pensarci, siamo circondati da molte cose che non conosciamo. Per meglio dire, le vediamo, magari anche frequ...