【Gianni Spagnolo © 21H27】
La recente pubblicazione delle foto di Francesco Lorenzi relativa all’architrave della casa dei Lorenzi-Carnavale in l’Ara e la tradizione che esso provenisse dalla primitiva chiesa di San Pietro, sollecita la riproposizione d'un vecchio post pubblicato cinque anni fa relativamente al primo parroco nativo del paese: Zuanmaria de ser Isepo de Lorenzi (Giovanni Maria di Giuseppe Lorenzi).
Egli era infatti un chierico e proveniva da una famiglia relativamente abbiente per lo standard paesano. Suo padre Isepo è detto infatti “ser”, titolo riservato un tempo a chi esercitava una professione artigianale e quindi più distinta rispetto ai contadini e ai boscaioli che costituivano la maggioranza. L’avvio agli ordini sacri costituiva allora l’unico modo per far studiare la prole, ma comportava un onere importante per la famiglia, che gli doveva provvedere la cosiddetta “dote ecclesiastica”. Onere che si tramutava poi nell’onore di poter annoverare un figlio sacerdote il quale poi, non di rado, costituiva un traino per la distinzione della famiglia e per orientare agli studi i nipoti. Un figlio prete era dunque un importante investimento per la sua famiglia e le vicende narrate di seguito dimostrano che in quell’occasione lo fosse anche per il paese, dato che l’intera comunità viene coinvolta in una scelta che segna un punto di svolta nella storia ecclesiastica del paese, mettendo fine ad un’epoca di incuria e abusi.
<< .. Correva l’anno 1580 e la parrocchia di San Pietro si trovava vacante e senza cura d’anime. Nel gelido sabato del 16 gennaio, nella chiesa parrocchiale di San Pietro «in pertinentiis ville Rotii Septem Communium..», si riuniscono una ventina di capifamiglia per eleggere un sacerdote che reggesse la parrocchia e ne officiasse i riti.
Questa è un’assemblea meno solenne di quella che neanche due anni prima ratificò la fusione con Rotzo; si tratta di una vicinìa chiamata a dirimere una questione certamente importante, ma di ambito più circoscritto. Notiamo infatti che tra i convenuti ci sono capifamiglia che non erano presenti a quella precedente, mentre altri mancano. Dal documento appare che all’epoca il piccolo centro, formatosi intorno all'antico ospizio, era già organizzato religiosamente e civilmente. Fino ad allora s’erano succeduti nella collazione del beneficio parrocchiale una serie di sacerdoti foresti (vedremo però in seguito in quale modo esercitassero il loro ministero), mentre ora sembra che non vi sia alcuno disposto a prendersi carico dell’amministrazione religiosa di questa piccola parrocchia situata sui termini settentrionali della diocesi di Padova. A quel tempo la società era genericamente permeata dai principi cristiani, ma la loro istruzione, anche da parte dei prelati esponenti dall’aristocrazia e interessati più al governo secolare che alla pastorale, lasciava parecchio a desiderare. Figuriamoci dunque quale potesse essere la situazione della cura d’anime in territori marginali e poco appetibili come i nostri. Il mercimonio delle prebende ecclesiastiche imperava anche qui come altrove, con la conseguenza di lasciare spesso le piccole comunità periferiche sprovviste di assistenza ecclesiastica.
Proviamo allora ad immaginare come fosse organizzata la pastorale del nostro territorio all'epoca. Innanzitutto va considerato che il modello di sacerdote era ben diverso da quello delineato poi dal Concilio di Trento. Fu infatti questo XIX Concilio Ecumenico, che durò dal 1545 al 1563, che pose le basi per una migliore selezione e istruzione dei preti diocesani, attraverso i seminari, l’introduzione del messale e del catechismo romano, del divieto di cumulare prebende, ecc. Venne stabilito l’obbligo di residenza e della tenuta dei registri parrocchiali e tutta una serie di prescrizioni volte ad assicurarne il rigore dottrinale e risollevare Chiesa Cattolica dallo stato di simonìa e corruzione in cui l’aveva trovata e giustamente biasimata la Riforma Luterana.
I libri di storia locale ci informano di come fossero un tempo diffusi sul nostro territorio i preti ultramontani (tedeschi, ma non solo), a significare che in tali paesi si parlasse il cimbro e che necessariamente il prete doveva darsi da intendere in quella lingua*. Vediamo di approfondire meglio questo fatto e di farne una lettura meno superficiale e deterministica: le collazioni (nomina del titolare del beneficio) delle parrocchie venivano allora effettuate dal Vescovo ad ecclesiastici che badavano più alle rendite dell’ufficio, fra l'altro cumulabili, che al loro ministero e che spesso subappaltavano la cura d’anime a terzi o non se ne curavano affatto, lasciando a se stesse le comunità più povere e disagiate.
Né è prova eloquente lo stato della parrocchia di San Pietro precedente a questa assemblea. Il beneficio parrocchiale [Il Parroccato, che rendeva allora 80 ducati complessivi all'anno] era stato assegnato ad un tal don Giuseppe Fontana di Vicenza, il quale aveva l’aveva subappaltato a suo cugino don Giambattista Fontana per 10 ducati l’anno. Questo suo parente risiedeva anch'egli a Vicenza e aveva affidato l’incombenza ad un cappellano sessantenne di Canove, don Michele Sterchele*, che pagava con 16 stari di frumento, 6 mestéi di vino e 13 matapan (ducati d'argento) l’anno. Il baldo cugino s'intascava così allegramente la differenza standosene in città. Questa fu la situazione che trovò il Visitatore Vescovile Mons. Girolamo Vielmo; per non parlare della chiesa <desolata e in tristissime condizioni>. Al parroco titolare fu quindi imposto, sotto pena di scomunica, di risiedere a San Pietro o di mantenervi stabilmente un prete. Piuttosto che farlo, il sacerdote rinunciò all'incarico, dopo ben 20 anni di questo furbesco andazzo. Il rettore successivo, tal Francesco de’ Priorati di Vicenza percepiva 24 ducati, ma di sicuro neppure lui presidiava di persona l’ufficio ecclesiastico di San Pietro. Infatti la casa canonica è detta <rotta e desolata> nelle cronache del tempo.
I preti germanofoni erano riuniti in consorterie e gestivano sul territorio una sorta di monopolio, passandosi fra loro i benefici delle parrocchie e tenendosi informati sul giro di prebende che vi gravitava. Questi erano sacerdoti girovaghi, dall’incerta preparazione dottrinale e a volte anche dai costumi discutibili e dalla dubbia ordinazione, ma avevano almeno il pregio di risiedere in loco accontentandosi delle rendite meno appetite dal clero diocesano. In tempi in cui la lingua ecclesiastica era il latino, le funzioni prevalentemente rituali e dove il prete esercitava meno quel ruolo sociale che assunse dopo il Concilio di Trento, il fatto che egli parlasse la lingua locale e risiedesse in loco, era un aspetto che interessava assai poco al Vescovo che dispensava gli incarichi. Prova ne sono le accorate interpellanze rivolte alle curie da alcune parrocchie della montagna vicentina affinché considerassero anche questo aspetto. Restando a San Pietro, sono persuaso che ben pochi dei preti titolari del beneficio elencati nei libri di storia paesana prima del Concilio Tridentino abbia messo piede in parrocchia, se non per riscuoterne le rendite o in occasione di qualche visita vescovile; in alcuni casi documentati nemmeno in quella. È dunque su una situazione di grave disagio ed emarginazione che i Nostri sono chiamati a decidere in questa riunione, della quale trascrivo letteralmente il verbale rispettandone la sintassi di redazione:
«Essendo che il beneficio et chiesa de S. Piero di Val d'Astego al presente si trovi vacante et senza curato, et desiderando li infrascritti homini habitatori di detto loco di S. Piero di provvedersi di uno sacerdote e habia da officiare, in vita sua, in detta chiesa et haver cura di amministare al detto populo et regere et gubernare detta chiesia et populo como buoni cristiani timorosi del Signor si chiede, et considerata la buona vita et costumi del prudente et religioso giovane mess. Zuanmaria fiolo de ser Isepo de Lorenzi, del detto loco de S. Piero, il quale desidera de farsi sacerdote, et havendo havuto anco li ordini quattro minori. Et havendo vuto piú volte ragionamento con detto Zuanmaria et con il detto suo padre circa le cose predette..., Zuanmaria et padre hanno promesso alli tutti homini che, quando esso Zuane potesse ottenire il beneficio predeto, saria buon rector et governatore et faria con ogni diligentia l'officio di buono et religioso sacerdote; non solamente in tenire regulata la detta eclesia et sue intrade...».
Approvano all’unanimità la scelta di Zuanmaria i seguenti capifamiglia di San Pietro:
«Lunardo q. Facin de Lorenzi, ser Marco q. Antonio dalla Costa, Francesco q. Baptista janexin, Zuane q. Barth. de Janexin et Zulian suo fratello, Francesco q. Zuane de Lorenzi, Zuanmaria q. Francesco Spagnolo, ser Baptista q. Cristoforo de Toldo, Toldo q. Lunardo de Toldo, Zuanmaria q. Cristoforo de Toldo, Girolamo q. Stefano de Gavexena, Antonio q. Baptista de Janexin et Piero suo fratello, Zuane q. Luca de Toldo, Baptista q. Barth. de Janexin, Domenego Lorenzo de Facin, Bernardo q. Zuanpaulo dalla Fontana, Lunardo q. Baptista de Facin et Baptista q. Mattio della Campagna».
Tutti i suddetti uomini:
«padri di famiglia, sustinenti li cargi et facion con detto colonello et facendo per sé et heredi suoi et per nome del colonello (di S. Pietro), 'de uno animo hanno laudato,.,»
Notiamo che la sensazione di abbandono è talmente grave che questi uomini investono un chierico studente di appena 19 anni, che è professo ma non ancora sacerdote, affinché prometta di prendersi cura della parrocchia con dedizione ed onestà, chiamando a garantire il patto con i suoi compaesani pure suo padre Isepo, dato che Zuanmaria è ancora minorenne per la legge d’allora. Si riferiscono ad accordi precedentemente avuti con il giovane e suo padre circa l'argomento: «Et havendo vuto piú volte ragionamento con detto Zuanmaria et con il detto suo padre circa le cose predette,.,», a significare quanto stesse loro a cuore che fossero ben comprese ed interpretate le ragioni del "contratto" che stanno stipulando con il ragazzo e quante attese riponesse in lui la comunità tutta.
I Sanpieresi stanno infatti facendo un investimento sul loro futuro, appoggiandosi ad una famiglia di riguardo del paese affinché un suo giovane esponente si faccia carico di una esigenza comunitaria sentita come irrinunciabile. Si avverte qui un primo riflesso delle nuove costituzioni del Concilio di Trento, terminato nel 1563, ma che comincerà ad aver effetti solo dal secolo successivo e che tanta parte ebbe nel rinnovamento della Chiesa Cattolica, sferzata a sangue dalla Riforma Protestante. Fu anche per il pericolo della diffusione della Riforma che i Vescovi serrarono i ranghi e incoraggiarono l'adeguata formazione di un clero locale, sospettando che i chierici stranieri ne potessero essere tramite.
Zuanmaria venne in seguito ordinato sacerdote, assumendo il rettorato della parrocchia solo tre anni più tardi, nel 1583. Del suo parroccato, durato 17 anni, sappiamo purtroppo poco, ma sicuramente tenne fede al suo impegno e dette lustro alla sua terra, alla sua famiglia e al suo ministero. Riuscì infatti a realizzare quello che a nessuno dei suoi predecessori fu possibile o forse passò mai per la mente, ovvero costruire una nuova chiesa dopo oltre seicento anni (La seconda Chiesa, del 1585). Qualche anno più tardi e certamente su suo impulso, venne ordinato sacerdote un altro chierico locale, Lunardo Toldo, che nel 1596 fu eletto parroco di Brancafora*.
Fu verosimilmente il corale appoggio della comunità che gli consentì di portare a termine l'edificazione della nuova chiesa, che per il paese dovette essere un evento di assoluto impegno e novità. La chiesa precedente, che pare fosse ancora quella originaria, aveva l’abside rivolto a levante e con l’aspetto di una modesta cappella in stile romanico a due anditi. Dovette essere una costruzione assai spartana e angusta, avendo una superficie al piano terra di soli 32 mq per un'altezza di appena due metri ed era detta priva di pavimento, con il fondo in terra battuta. Disponeva stranamente anche di una cappella superiore, sostenuta da un pavimento a volto poggiante su tre colonne, probabile lascito della sua originaria funzione ospitaliera o forse, più tardivamente, monasteriale.
Zuanmaria Lorenzi costruì un tempio più grande, ma sempre con il coro rivolto ad est all’uso antico, che durò per i successivi due secoli. Inizialmente non era dotato di campanile, ma di un'edicola sulla sommità della facciata che conteneva tre piccole campane. Anche gli altari laterali, le decorazioni e gli arredi liturgici vennero poi aggiunti gradualmente secondo le possibilità della comunità. ..>>
Torniamo ora al tema iniziale, ossia al reperto dell’architrave della casa dei Lorenzi Carnavale in l’Ara. Joani Carnavale esercitava in quella bottega l’arte del falegname, ma era anche bottaro, ruaro e mobiliere, esprimendosi a tutto campo nella lavorazione del legno. Il suo laboratorio era provvisto anche di una fucina e di un tornio in legno a pedale e operò fino agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso. Siamo dunque a quasi quattrocento anni di distanza dagli eventi narrati, ma è probabile che Joani portasse avanti un mestiere che era tradizionale nella sua famiglia da secoli, fin da quel ser Isepo padre di Zuanmaria. Quel giovane prete, che prese in mano la parrocchia a ventitrè anni e all’edificazione della nuova chiesa a venticinque, dovette sicuramente avere nel padre un supporto fattivo e nella comunità un significativo aiuto per risollevare le sorti di una parrocchia allo sfacelo. La chiesa originaria era molto piccola e strutturata su due piani e dovette essere distrutta e riedificata a nuovo su una pianta più estesa. Gli elementi architettonici lapidei risultanti dalla demolizione, quali pilastri, stipiti ed architravi, forse non erano proporzionati al nuovo tempio e vennero perciò riutilizzati nelle costruzioni civili. Ecco che quindi non è inverosimile che l’architrave dell’antica chiesa fosse stato impiegato per il portale della casa dei Carnavaj. Era infatti questa la storia che Joani raccontava orgogliosamente a chi vistava la sua bottega, andando con lo scalpello a ricalcare i solchi di quella suggestiva iscrizione quasi ad evocarne la paternità.
L’iscrizione riporta la data del 1588 e il cristogramma IHS e pertanto la scritta non può risalire alla primitiva chiesa di San Pietro; si possono dunque immaginare due scenari:
1) L’architrave e gli stipiti provengono proprio dalla chiesa cinquecentesca edificata da don Zuanmaria e demolita alla fine del Settecento per far posto alla terza chiesa. La seconda chiesa è documentata nel 1585, ma sicuramente il suo completamento richiese più tempo e perciò ci può stare la data del 1588, magari relativa alla sua consacrazione.
2) I reperti provengono dalla chiesa primitiva e l’iscrizione fu incisa in occasione del loro inserimento nella casa dei Carnavaj, magari girando le pietre in maniera da presentare la faccia pulita.
Nel primo caso avremmo che la casa dei Carnavaj fu edificata (o modificata) alla fine del Settecento, in concomitanza con la demolizione della chiesa cinquecentesca. Il fatto che la porta sia quella della bottega al pianterreno e non quella d'ingresso della casa sul pergolo, farebbe propendere per questa evoluzione.
Nel secondo caso la casa sarebbe stata edificata alla fine del Cinquecento accogliendo i reperti della chiesa originaria. Se fosse così è probabile che le facce murate degli stipiti e degli architravi rechino i segni dei vecchi cardini e forse anche qualche originario simbolo.
Per il momento possiamo fare solo supposizioni, auspicando che magari in futuro si presenti l’occasione di approfondire l’argomento e sciogliere l'enigma.
* Il cappellano da Canove del 1563, parlava sicuramente il cimbro, come pure il suo collega da Lusiana o il Raus da Vallarsa e altri che officiarono a San Pietro nel tempo come supplenti dei rettori titolari indicati negli archivi diocesani. I cugini sacerdoti Fontana o don de' Priorati da Vicenza certamente non ciauscavano affatto, ma a quanto pare nemmeno bramavano di dialogare con il gregge loro affidato. Questo per dire che certe deduzioni semplicistiche che spesso sono state tratte e scritte basandosi su un'interpretazione frettolosa degli elenchi curiali, andrebbero forse meglio motivate.