Avér sàta

[Gianni Spagnolo © 24L26]

El ga sàta, el toso!” Era questo il più bel complimento che si potesse ricevere un tempo dagli adulti e particolarmente dagli anziani, geneticamente sempre parchi di elogi, quanto prodighi di biasimi. 

Avér sàta, ossia abilità, talento, era un pre-requisito importante per riuscire in una professione. La sàta veniva ovviamente misurata sull’atto pratico e utilitaristico del talento, non già su quelle abilità improduttive che non rientravano nella comprensione della società d’allora, perché non avrebbero dato nessuna sicurezza alla famiglia. 

Neanche la sàta, da sola, era però sufficiente se non si coniugava con la: voja de laorare. Aver voja de laorare, essere cioè un lavoratore affidabile, era una qualità che superava tutte le altre e rendeva socialmente stimabile una persona. Nol ga mìa voja de laorare! Questo era uno stigma sociale che segnava a vita e pregiudicava anche matrimoni e società.

  • Sàta + voja de laorare + rabàto = soramànego

Cioè: il talento, con la voglia di lavorare e l’esperienza, costituiva l’acquisita professionalità dell’individuo e la capacità di destreggiarsi in molti ambiti. Il soramànego faceva così la differenza fra un manovale e un professionista esperto. Boscajùi, malgari, carbonari, cavalari, minatùri, carpentijri, mistri, murari, munari, .. Stiàni non erano poi molti gli sbocchi professionali ricorrenti dei nostri avi. Va però considerato che, oltre alla professione prevalente, allora si doveva essere capaci di fare un po’ tutti questi mestieri e anche altri; tutto ciò che serviva per l’economia del paese e della famiglia. Anche perché molti lavori erano stagionali e all’estero, per cui, al rientro, ci si doveva occupare di una molteplice serie di attività stagionali, dall’attendere ai campi, al fare la legna, al riparare la casa, a curare il bestiame, ecc.

Oggi abbiamo maggior possibilità di seguire i nostri talenti e ritagliaci una professione abbastanza in linea con essi (chi più e chi meno). Professione specifica assegnata dalla moderna cultura industriale, dove ognuno contribuisce con la sua piccola rotellina a far funzionare l’intero complesso meccanismo. Magari tanto brai sul poco, ma sensa soramànego pal resto.

Negli ultimi due secoli, da noi, il lavoro ha sempre scarseggiato, per cui il mànego o il soramànego di cui erano dotati i Nostri, dovette esprimersi prevalentemente nelle terre d’emigrazione, dove non mi pare abbia sfigurato.

In termini moderni il soramànego può tradursi con efficienza e produttività; proprio le qualità di cui avrebbe ancora un bisogno spasmodico la nostra Italietta. Invece mi pare che si preferisca continuare ad esportare soramàneghi e importare solo màneghi. Manovalanza generica che servirà forse a pagarci le pensioni, come recita il pensiero dominante, ma improbabile riesca a creare celermente il valore aggiunto di cui ha bisogno la nostra economia. Sono finite le terre vergini da colonizzare come le Americhe o l’Australia dei secoli scorsi, oggi per competere ci vorrebbero soramàneghi di ben altro spessore di quelli che provengono da realtà più sciagurate di quanto non lo fossimo noi stiàni.

Ma non disperiamo: la sàta, così come l’intelligenza, è stata distribuita a spaglio durante una tempesta, per cui nessun campo può dire d’averne preso più di altri e chissà quali frutti e dove li produrrà. Ho però la vaga impressione che la nostra generazione abbia sbagliato concime.


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