mercoledì 8 marzo 2017

L'altra metà

Oggi assisteremo allo spiegamento di tutto l’armamentario di retorica legato al mondo femminile e alla sua celebrazione. Ormai è un rito conclamato cui è difficile sottrarsi. Milioni di maschietti pagheranno fior di quattrini per striminziti mazzetti di mimose, altrimenti di nessun valore.
Altrettante donzelle, più o meno in fiore, faranno finta di sciogliersi di fronte a questo sussulto di galanteria.
Al di la delle ritualità consumistiche e del corollario di banalità accessorie, proviamo a chiederci come sarebbe il mondo senza questa fondamentale sovrastruttura della biblica costola.

Noi magari non ci badiamo, perché fa parte fortunatamente del nostro modo di vivere, ma ci sono ampie aree del mondo in cui la presenza femminile nella società è relegata in ambito strettamente domestico e pressoché invisibile e inaccessibile al di fuori di quelle mura. Strutture sociali e civiltà praticamente monche di una loro componente rilevantissima ed essenziale.

Vengo da  soggiorni in paesi musulmani dove la donna è una presenza pubblica rara, sfuggevole e sempre paludata in vesti informi. Recentemente mi trovavo a Dhaka, la capitale del Bangladesh. Una metropoli di circa 16 milioni di abitanti, in un piccolo paese in via di sviluppo che di abitanti dicono ne conti più di 200 milioni. L'ho visitato in lungo e in largo, come avevo fatto poco prima con il Pakistan, altra nazione a preponderante maggioranza musulmana, nata dai cocci dell'Impero Britannico.
Dhaka è una città che definire caotica e sovraffollata è un eufemismo. Persone dovunque, di ogni età e condizione, anche se prevalentemente giovani; l'età media è infatti straordinariamente bassa, con il 60% della popolazione sotto i 25 anni.
Ma… inesorabilmente solo maschi. 
La rara presenza femminile in pubblico si nota nei mercati alle ore stabilite e infagottata in modo da lasciare quasi tutto all’immaginazione. Solo gli sgargianti colori dei sari, retaggio della cultura indiana, riescono a ingentilire quelle figure, diversamente da quelle lugubri delle loro corrispondenti mediorientali. Se qualche faccia postpubere s’intravede, sicuramente è indù o di qualche altra religione minoritaria. 
Dove impera l’Islam la situazione è più o meno questa. Solo in parte dell’Africa, nei paesi post-sovietici, nello Xinjiang cinese o dove i maomettani sono minoranza, la donna riesce forse ad avere una maggiore visibilità sociale, ma più per costrizioni storiche esterne, che per determinazione propria.
Non è che non lavorino; lo fanno più dei maschi, stipate nelle fabbriche di confezioni a cucire la roba che ci portiamo addosso, di marca o meno che sia. Ma non si vedono, devono stare relegate, occuparsi delle loro faccende. Un mondo diviso, duale, forzatamente separato dai costumi e dalle abitudini inveterate, codificato dalla religione, che qui è indistinta dalla sfera civile.

Non  rileva che tanto il Pakistan, quanto il Bangladesh abbiano elevato delle donne al rango di primo ministro. Lì sono gli interessi delle dinastie tribali a prevalere, che perseguono il potere a prescindere, come a tutte le latitudini. Ovviamente in società così rigide regna sovrana anche l’ipocrisia, l'osservanza formale unita alla trasgressione praticata in forma privata, dove più dove meno, specie dai più abbienti. Tutto il mondo è paese, d’altra parte.
Da noi ci si balocca con il tema dell’integrazione, non rendendoci conto che questo è principalmente, per non dire essenzialmente, un problema nostro. Nessuno di quel mondo ci sta chiedendo di integrarsi; al massimo pretendono la libertà di applicare le loro regole e di non interferire nei loro usi e costumi.
Ho da tempo consuetudine di rapporti con i musulmani, dall’Africa all’Asia; di affari naturalmente, ma anche di amicizia. Ho passato ore, anche notti, a discutere con loro di filosofia, di religione, di società e dei temi più vari; ad ascoltare i loro ragionamenti e capire il loro modo di pensare. Persone anche istruite e ben introdotte, spesso pratiche di mondo e cosmopolite, anche giovani laureati nelle migliori università dell’Occidente. 
Ne ho tratto il personale convincimento che non ci potrà mai essere vera integrazione fra le nostre società. Finché i praticanti l’Islam saranno minoranza potrà stabilirsi una convivenza più o meno accettabile e pacifica, ma niente potrà distoglierli dal loro intimo convincimento, incrollabilmente radicato a tutti i livelli sociali, di ceto e di istruzione, che noi siamo nell’errore e loro nel giusto e che l’unica via è l’accettazione del loro modo di vedere le cose. 
Sottomissione: è appunto questo che significa Islam. 
In verità la sottomissione, l'abbandono, sarebbe alla volontà di Allah, ma dal momento che la sfera civile e religiosa è strettamente compenetrata e inestricabile, significa semplicemente quello che i seguaci intendono.

L'estate scorsa sono andato sul luogo dove poco prima era avvenuto l'attentato dell'Isis (Daesh) costato la vita a 9 nostri connazionali, oltre ad altri 13 civili inermi che sono stati brutalmente massacrati. Devo dire che i Bengalesi sono stati sinceramente scossi da questo efferato episodio. Sono un popolo mite e ospitale e si sono prodigati a marcare la loro distanza dalle ragioni degli attentatori. Viaggiando nel paese ho assistito ad molteplici manifestazioni di scolaresche che esprimevano con striscioni e slogan la loro disapprovazione. Vengono da una storia travagliata di lotte e separazioni, di epiche migrazioni e di tradimenti che hanno sfiorato il genocidio in tempi relativamente recenti e ad opera dei loro correligionari pachistani. Certamente dove l'appartenenza religiosa è stata criterio di selezione e concentrazione è anche comprensibile che sia maggiore la radicalizzazione e la chiusura.
Molte cose concorrono a rendere instabili le cose in queste parti di mondo, non ultima la povertà, la natura inclemente e l'incremento demografico che condiziona forse più di ogni altra. Credo che l'Occidente, inteso nell'ampia accezione dei paesi più benestanti, debba farsi carico di agevolarne lo sviluppo, senza tuttavia scendere a compromessi in quanto a valori e sistemi di vita.
Mi sovviene l'esempio, a noi vicino, di Venezia. Per secoli la Serenissima commerciò con il Levante musulmano traendone sviluppo e ricchezza. Quando si trattò però di difendere la civiltà alla quale apparteneva, non esitò a schierarsi a Lepanto come a Vienna, e contribuì efficacemente ad evitare che le anche nostre donne oggi portino la hjiab.
Resta da vedere se noi abbiamo ancora dei valori da difendere e se ci rendiamo effettivamente conto della portata delle sfide che ci troviamo ad affrontare.
Gianni Spagnolo


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