martedì 25 settembre 2012

Il pappagallo


                      


Il prete spingeva il suo passo a fatica giù per la discesa di quella periferia del paese dove non arrivava il suono delle campane.

Dietro a lui il chierichetto stentava a tenere il ritmo della camminata; lo ingombravano il turibolo e le vesti che quasi toccavano per terra, in più cadeva una fine pioggerellina di primavera che bagnava l’asfalto, gli orti, gli abiti e un brivido fresco penetrava la pelle, come quell’aria di primavera che non è fredda ma nemmeno troppo calda.
 Erano un po’ stanchi: avevano traversato il paese passando di casa in casa, per la consueta  benedizione pasquale delle famiglie.
Avevano anche fame, ormai si stava facendo mezzogiorno e i profumi delle cucine ne avevano stimolato l’appetito: nell’aria si confondeva l’olezzo dei fiori e dell’erba tagliata e l’aroma delle cucine creando con la pioggia un strano effluvio.
Bollivano sulle stufe a legna i cibi semplici della tradizione, buone  cose di stagione;  ora che la primavera aveva preso il sopravvento sulle ultime giornate fredde, nei campi si raccoglievano “i pisacan e le galinele”, accompagnati alle carni saporite degli animali domestici cucinate con perizia e passione dalle brave donne di casa, costituivano il pranzo semplice delle famiglie.
Tra “ciacole, preghiere, profumi, benedizioni, confidenze e raccomandazioni “non ne avevano avuto un minuto”, e non vedevano l’ora di terminare il giro per riposarsi nella sosta del pranzo, per poi riprendere e continuare nel pomeriggio le visite nelle case.
Il piccolo paese era raccolto intorno alla chiesa, uno dei più piccoli del Veneto come estensione territoriale, ma attivo e vitale.
Due erano le frazioni o meglio le  appendici, distanti più psicologicamente che fisicamente: Marola e Bessè.
Il prete impiegava quasi una settimana a passare casa per casa, ma quelle due periferie, una in alto, distesa sulle Bregonze e l’altra che scendeva lenta sino a lambire l’Astico costavano più fatica che tutto l’intero paese.
Vi erano in esse famiglie lontane dalle pratiche della chiesa, o meglio poco osservanti che alla santa messa si accostavano solo in occasione di battesimi, comunioni, matrimoni o funerali, a loro modo cristiani, anche brava gente, ma un po’ per conto loro.
Gli abitanti di Bessè, specialmente , con la scusa di essere più vicini alla parrocchiale di Caltrano, frequentavano meglio quella chiesa, posta appena oltre il ponte che scavalca l’Astico.
E questo il prete poco lo digeriva, gli sembrava che il suo “gregge” si perdesse per strade che portavano lontano che si sfilacciasse in un rivolo disordinato e poco visibile.
Non sapeva bene interpretare  quella ritrosia, quella quasi timidezza che a volte sconfinavano in una mezza ostilità, ma cercava di passare oltre trincerato dietro la sua maschera ieratica e quasi dura di un uomo tutto d’un pezzo, di vecchio curato di stampo ottocentesco.
Mia madre aveva “ pescolato” tutta la mattina per la cucina gettando spesso lo sguardo oltre il vetro della finestra per cercare la sagoma scura dell’arciprete che tardava ad  arrivare.
Ormai si era fatto tardi, aveva contato i rintocchi dell’orologio di Caltrano, uno ad uno, toc…toc…toc……..tin ed erano undici e mezzo.
L’inquietudine le dava una leggera agitazione e le ritirate nel bagno per la pipì erano state diverse.
Aveva preparato qualcosa per il pranzo ponendo distrattamente le pentole sul fornello a gas e aveva rischiato di bruciare il “desfritto”.
La stufa caricata malamente con pezzi di legno troppo grandi sbuffava fastidiosamente del fumo che aleggiava nell’aria e si confondeva con i profumi della cucina.
Anche noi bambini respiravamo quell’inquietudine e ce ne stavamo in disparte senza troppo sapere che fare, un po’ intimoriti ed emozionati da quella visita importante.
“Ecolo che ‘l riva” esclamò ad un certo momento nostra madre, appena le due sagome scure erano apparse da sotto il ponte.
“Ste boni che el ne da la benedision” continuò timidamente agitando nell’aria la mano per cercare di dissolvere il fumo che aleggiava nella stanza.
Accese una piccola candela che aveva preparato in un angolo della vecchia credenza e toccando con le dita la ciotola di acqua santa si fece il segno della croce.
“A volaria farghe benedire anca la stala” sussurrò un attimo prima che i colpi sulla porta annunciassero l'arrivo del prete.
In quel momento il raglio fastidioso del “musso” si librò nell’aria quasi a rompere quell’atmosfera mistica e vidi il rossore che avvampava il viso di mia madre.
Anch’io mi sentii arrossire, ero piccolo, ma comprendevo benissimo che il “musso” non ci voleva in quel momento, mi sembrava così di mostrare le pezze al culo.
La porta si aprì in fretta, entrarono, in silenzio.
Il prete lesse il disagio  e fece finta di niente e aspettò che la sinfonia dell’asino finisse.
Solo un “sia lodato Gesù Cristo” … “sempre sia lodato” a rompere quel fragore.
Furono attimi infiniti, mia madre così  imbarazzata non l’avevo mai vista, pareva che la nostra povertà fosse gridata in faccia al prete da quell’asino dispettoso  che a quell’ora non aveva mai ragliato.
Appena il trambusto si spense in un silenzio imbarazzato estrasse rigido gli arnesi della benedizione e salmodiando parole che io non compresi, benedisse la stanza, mentre il chierichetto dondolava il turibolo spargendo l’odore dell’incenso che in breve coprì il fumo della stufa e l’odore della cucina.
Due parole di circostanza, la busta con la piccola offerta che mia madre porse timidamente, poi il prete guadagnò l’uscita seguito dall’aiutante e in fretta sparirono dietro l’angolo della casa di Tony Brigo sulla strada che porta a Bessè.
“Parchè mama, no te ghe fato benedire la stala” chiesi appena mia madre si era un attimo ripresa.
“La benedission la passa sète muri, e la xé rivà de sicuro anca  da che’l vilan del musso”
replicò piuttosto imbarazzata.
Il prete in cuor suo aveva fatto le sue considerazioni, non servivano parole, bastava leggere i tratti del viso, più severi del solito.
“Maria vergine ghetu sentìo che musica….speremo che el padreterno varde in xó” disse al chierichetto che seguiva il passo in silenzio.
Forse pensava che la mia famiglia fosse poco timorata di Dio, poche volte aveva visto mia madre in chiesa a Chiuppano, e mio padre forse mai.
Avevano bene la scusa di andare in chiesa a Caltrano, ma quella non era la loro parrocchia pensava ad alta voce il prete.
Gente al confine del paese,…. forse anche al confine dello sguardo amorevole di Dio, forse comunisti avrà pensato sicuramente il prete
Proseguì per altre case di quella periferia, ai suoi occhi sempre più lontana dalla sua chiesa, salvo qualche pia donna che vedeva a messa prima la domenica, o la Nela Frighetto che aveva una figlia suora e che custodiva  il piccolo capitello della Madonna di via Costo.
Si fermò con questi pensieri, davanti a quella che nella sua intenzione doveva essere l’ultima casa di quella mattina.
Una casa buttata su alla meno peggio con pezzi di intonaco mancanti che facevano intravedere i blocchi di cemento della struttura.
Brutta cosa da vedere che dava un senso di incuria e di miseria.
Suonò il campanello sullo stipite del  cancello di ferro, in lontananza rintoccavano le dodici e la pioggia fastidiosa insisteva ancora sulle spalle ormai fradice.
Arrivò ad aprire una donna che nemmeno conosceva per nome e con un imbarazzo simile a quello di mia madre aprì e gli fece strada nell’attraversare il piccolo cortile.
“Bon giorno reverendo”
“Buon giorno” rispose “suto suto” il prete cercando di non intavolare discorsi.
Per terra razzolavano galline ed animali da cortile, il fango e “i schiti” inzaccheravano le vesti e le scarpe………. in paese non era così, case ordinate, giardinetti curati……
La donna senza girarsi precedeva il prete e guadagnò in fretta la porta della casa e scomparve nella penombra della stanza.
Sotto il piccolo portico che poi era una lamiera ondulata di plastica gialla spioveva una luce tetra che colorava malamente delle gabbie di uccelli appesi alla parete tra attrezzi da lavoro e qualche grappolo di cipolle secche
Al vedere le due sagome foreste le bestie si agitarono e starnazzarono fastidiosamente.
“Là el musso qua le galine” pensò subito il “mocoletto”.
Il prete si sentì proprio nel covo degli abbandonati da Dio e gettò uno sguardo rapido al chierichetto quasi a cercarne la complicità.
Poi tirò un sospiro e varcò la porta, che dava in quella che doveva essere la cucina, dagli odori acri che erano nell’aria.
Una stanza quasi buia, con la luce che filtrava dal vetro sporco della porta e da una finestra con la persiana mezza chiusa.
“Dio c.. che scuro che xè vegnù”
Questa frase fu un colpo di frusta nell’aria, uno sputo in faccia al prete.
Si resero subito conto che era stato il pappagallo rinchiuso dentro una gabbia appesa in un angolo della cucina.
La donna divenne bianca come una “strassa “, si sentiva  confusa ed imbarazzata, quasi stordita, come se avesse ricevuto una sberla.
Il prete fece finta di niente, emise un gemito per tentare di rompere il silenzio e cercò di ingoiare il rospo, ma il chierichetto nella sua innocenza a bassa voce disse: “ reverendo el  papagalo el ga dito na bruta parola”.
A quel punto non c’era più niente da nascondere, i visi dicevano tutto il disagio e la vergogna, non servivano scuse o parole; la frittata era fatta.
Fu gettato sulla gabbia un “strasón” in modo da tacitare il pennuto, ma ormai l’aveva combinata grossa.
D’altra parte la povera bestia aveva assorbito quel lessico ed imparato quelle parole specialmente dal padrone, non esattamente timorato di Dio.
La benedizione a quel punto sembrava agli occhi del prete quanto mai opportuna, chissà che il Signore non avesse toccato quei cuori duri e ….. soprattutto perdonato.
Cominciò a recitare la litania guardando per aria ed il chierichetto diede quattro colpi di turibolo spargendo sulla stanza l’odore forte dell’incenso.
“Maria sinti che spussa, te ghe calcossa che brusa sula tecia”
Era ancora il pappagallo che beffardamente continuava a parlare dalla gabbia coperta dallo straccio.
Il prete concluse in fretta la breve cerimonia e in fretta guadagnò la strada senza troppo guardare se ancora cadeva la pioggia.
Ormai si erano fatte le dodici passate, ma gli era anche passata anche la fame.
Risalì la salita seguito dal chierichetto  “molo molo” come avesse fatto uno sforzo immane.
Quella periferia gli era andata di traverso del tutto, era al confine del paese e lontana dal timore di Dio.
Un pensiero fisso ora lo tormentava: che fosse una contrada di colore rosso una specie di  Siberia senza Dio e mangiapreti?

Maurizio Boschiero






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