domenica 9 settembre 2012

Fuga da casa



“Podariselo darme quel ca ghe vanso” chiesi deciso a mezzogiorno al signor Ulisse che in quel momento stava per salire in macchina, una 1100 bianca, per andare a pranzare.
Dalla faccia che fece capii subito che restò come “insiminio” perché non si sarebbe mai aspettato una richiesta simile.
“Cossa ghin fetu dei schei” disse quando si riebbe dalla sorpresa, ma con l’espressione del viso che continuava ad essere tesa.
“A vo a Venesia co me cugin Armando e n’altro toso” aggiunsi senza tanti giri di parole.
“A ghelo digo mi a to popà, a go el camio de capussi da scaricare altro che Venessia” finì così quel dialogo senza possibilità di replica.
Ulisse Benedetti era un amico di mio padre ed era il titolare della omonima ditta di crauti in cui d’estate andavo a lavorare quando ero in vacanza da scuola.
Era un lavoro abbastanza duro perché dovevano scaricare i camion di cavoli a mano e passarli alla lavorazione successiva, per di più sempre all’umido e quasi sempre chinati.
La paga era di cinquecento lire l’ora, una ottantina di mila lire al mese che facevano comodo in casa e che mi servivano per comprarmi qualcosa.
Con  quei soldi in un paio di estati riuscii ad acquistare il motorino un bellissimo “Ital Jet” color argento che comprai a Thiene da Manzardo.
Quel pomeriggio il signor Ulisse arrivò con i soldi una sessantina di mila lire che per il mio scopo potevano bastare.
Me li consegnò in mano aggiungendo solo: “Ma doman vientu”?
“No doman parto” risposi secco.


La sera di quel giorno andai a procurarmi un po’ di roba da portar via e il sacco a pelo che era il simbolo di quegli anni e di quelle storie con l’eskimo e i jeans.
In casa dissi che andavo un paio di giorni a Venezia con mio cugino e Pierfranco de Rino Pon.
Era la prima volta che mi allontanavo da casa, al massimo prima ero arrivato a Schio e in casa accolsero la novità forse senza rendersene ben conto.
Visto però che c’era di mezzo mio cugino li rassicurava un po’.
Mi fecero mille raccomandazioni, mia madre mi raccomandò alla Madonna e mio padre più realmente disse:” Statento che no te vai a negarte, parchè là ghe xé acqua”, come se io non lo sapessi e fossi un “meso laicoto alto e sciao”
“I ga da fare le so caravane sti tusi, ala pì porca a naramo turli” commentò per rassicurare anche se stesso mio padre.
Partimmo un pomeriggio di luglio che faceva un caldo soffocante e l’asfalto tremolava nel riflesso della calura.
Mia madre si sciolse in lacrime e quelle erano più eloquenti di tante parole, io persi la baldanza di quando chiesi i soldi e mi riusciva difficile cacciare il groppo dalla gola, il mio animo si intenerì come quell’asfalto molle della strada.
“Se no i ne porta al malincomio stavolta no i ne porta altro” commentò alla fine mia madre rivolta a mio padre.
Nell’allontanarmi da casa mia non mi girai mai per guardare indietro, se lo avessi fatto forse non avrei più trovato il coraggio per partire.
Avevo la sensazione di andare in un posto lontano, immaginavo quei viaggi lontani che in altri anni partivano per le Americhe, ed invece erano solo un centinaio di chilometri.
A casa di mio cugino trovai anche Pierfranco detto Spray, e anche lì altre prediche, raccomandazioni preghiere.
Mio zio Rino “scorlava” la testa e Rino Pon  tirava xo qualche “siraca” delle sue
Per fortuna che avevamo detto che stavamo via due o tre giorni sennò….in realtà il nostro obbiettivo era di raggiungere Venezia e poi Firenze.
A Venezia dovevamo incontrare Riccardo e Andrea da Malo che erano andati via di casa un paio di mesi prima.
Di quel fatto ne aveva parlato per giorni tutto il paese come fosse successo chissà quale disastro.
Tutti commentavano, e dicevano la loro, solo qualcuno di buon senso diceva: “No bisogna darsene maraveja che ghin’è par tutti”, ma erano rari  quelli che mostravano comprensione.
Se ne erano andati dissero per cercare se stessi, sulle strade del mondo con in faccia il respiro della libertà. Noi volevamo raggiungerli e condividere con loro la libertà, la voglia di andare, il bisogno di incontrare nuovi ragazzi e di recidere quei legami troppo stretti con la famiglia.
Queste idee avevano il colore della corriera della “Siamic” che alle due in punto si fermò davanti alla stazione vecchia stazione di Chiuppano.
Caricammo in fretta il nostro “armamentario” e ci accomodammo tra i sedili ed i passeggeri.
Le case scappavano all’indietro parevano i miei pensieri che non sapevano staccarsi da casa mia e dai miei. In poco tempo arrivammo a Thiene e la corriera ci portò fino alla stazione del treno, dove dopo poco partiva la coincidenza che ci avrebbe portato a Vicenza.
Fosse stato per me, mi sarei già perso tra i due binari della stazione, perché non avevo mai  viaggiato in treno, ma mio cugino, che era un anno più grande di me e che era stato in collegio ai “discoli” di Enego se la cavava decisamente meglio.
L’avevano messo in collegio perché non andava bene a scuola, ma anche perché faceva dei brutti “sesti” e aveva sempre in mente le donne nude; su quell’argomento non si prendeva certo indietro e mia nonna “Silia” era tanto preoccupata. “Voja de far ben salteme dosso” commentava sconsolato suo padre Rino.
Spray già sentiva un “slangorimento can” che lo avrebbe perseguitato per tutto il tempo che fummo fuori casa, si sarebbe fermato in ogni chioschetto a comprare qualcosa.
Ci eravamo imposti di spendere il meno possibile per poter star fuori il più possibile.
A Vicenza le cose si complicarono ancora di più perché i binari invece che due erano una decina e lì se si sbagliava non è che saremmo finiti a Schio, lì si finiva a Milano Torino Genova…
“Roba che me faseva indrissare i caviji!”
Il pensiero mi dava un brivido e un’ansia non da poco, e non mi restò che agganciarmi come un’ombra al “comandaresso de me cugin”.
Ancora in treno direzione Venezia passando per Padova, Mestre ed infine la laguna.
La presenza dell’acqua e l’odore da “freschin” che filtrava dal finestrino erano i segnali che eravamo vicini alla meta, inoltre intorno non si vedevano più i miei monti che come sentinelle immobili avevano vigilato la mia vita e questo per me era il segnale che più mi amareggiava.
Fossi stato da solo sarei tornato subito indietro, ma non potevo ammetterlo perché mi avrebbero preso in giro e non mi “tenevo in bon”.
Nella grande stazione della laguna, quando il treno si fermò e fummo catapultati nel brulichio della gente indaffarata e presa, la sera si presentava tra le arcate della stazione allungando le ombre delle sagome e l’odore del mare si intrufolava tra le sale alte del complesso ferroviario.
Eravamo un po’ stanchi , affamati e assetati e pensammo bene di passare la notte sulle panchine di legno di una sala d’aspetto.
Già c’era chi si era accaparrato  il posto per dormire, erano ragazzi poco più vecchi di noi, capelli lunghi, barba e sacco a pelo…non si potevano confondere con altri.
Erano della nostra indole.
In breve ci trovammo in un gruppo  che sembrava uscito da un film americano, c’erano anche delle ragazze che fumavano e non avevano la ritrosia nei confronti dei maschi che io avevo sempre visto.
C’erano ragazzi che arrivavano da Roma, da Firenze e Napoli, da Bologna e da Milano, ma anche Americani, Inglesi, Francesi, Scozzesi.
Un catalogo di nazionalità di lingue e di dialetti che mi facevano sentire ancora di più la lontananza dal mio paese, quel piccolo triangolo di terra disteso ai piedi dell’altopiano di Asiago, immerso in quella mentalità che forse allora cominciava a cambiare.
Io che per una timidezza quasi patologica cercavo di starmene un po’ sulle mie, invece di passare inosservato con il mio comportamento ottenevo esattamente l’effetto opposto.
In breve dovetti conoscere un po’ tutti, e ogni volta avvampavo di rossore. Non ero abituato a presentarmi, avrei fatto non so che cosa piuttosto.
Il massimo dell’imbarazzo lo raggiungevo quando dovevo presentarmi ad una ragazza, io che nemmeno a scuola riuscivo ad avere un rapporto normale con le compagne di classe.
Quella sera conobbi anche una ragazzina forse della mia età, ma certamente più spigliata di me che si chiamava Frida  Tamiozzo ed era di un paese del veneziano.
Mi sentivo come un pesce fuori dell’acqua e a Venezia “la ghe vol tuta a sentirse cossì”.
Passavano di tanto in tanto i carabinieri a controllare i documenti, perquisivano qualche zaino, chiedevano se eravamo scappati da casa.
Lo chiesero anche a me, ed io nell’imbarazzo più profondo farfugliai che ero in vacanza con mio cugino.
Sul tardi quando diversi erano storditi  dalla birra e dagli spinelli, srotolammo i sacchi a pelo e ci infilammo per dormire.
Chi era del “mestiere” sapeva come fare e preparava il giaciglio con cura ed attenzione, cercando di trovare un posto sul legno di una panchina, magari ponendo dei giornali che attutissero l’impatto con il duro.
Io mi trovai a stendermi sul pavimento di palladiana poco pulito, ma ero così stanco che presi sonno in fretta, anche se la posizione non era delle più comode e il disagio si faceva sentire.
Prima di addormentarmi pensai alla mia cameretta che certo molto grande non era visto che la dovevo dividere con le mie sorelle, ma in quel momento mi sembrava il paradiso.
La notte mi “ramenai” non poco, avevo caldo e sete, ma dormii abbastanza e alle prime luci dell’alba con il personale delle pulizie in arrivo dovemmo in fretta lasciare il magro giaciglio.
Mi alzai che mi sembrava di aver fatto un incidente con un camion, mi sentivo tutto “desborassa” e avevo una faccia da “pumi coti” che facevo paura.
Andammo al bar a prendere qualcosa , il barista non era esattamente contento di quella “marmaja” nel suo locale, ma ci servì in fretta e ci fece capire di togliere presto il disturbo.
Uscimmo e ci avviammo in gruppo vero piazza San Marco, infilandoci tra le calli e gli stretti vicoli.
Frida ricordo che stava volentieri accanto a me, forse le facevo tenerezza; non parlavo quasi mai e rispondevo a monosillabi, o meglio per me parlavano i rossori che mi “invampavano” il viso se ero interpellato.
“Dai e radai” impiegando quasi tutta la mattina trascinando le ossa rotte per la notte sul pavimento e tra le tentazioni delle merci esposte sulle bancarelle e sulle vetrine delle botteghe e le stramberie che uscivano dalla bocca di “Spray” che continuava a lamentarsi per la fame, il caldo e il mal di piedi, giungemmo finalmente come un’armata di zingari in pazza San Marco.
Verso mezzogiorno il sole già scaldava bene e le persone sulla piazza erano già tante.
Americani, Giapponesi, Francesi, Inglesi si confondevano con le musiche del caffè Florian e i voraci colombi che assediavano i turisti.
C’era un’atmosfera leggera ed allegra di festa e di abbandono.
Noi incontrammo altri ragazzi della nostra “risma” tra cui un tal di Thiene e Ciccio “Bambola” di Caltrano.
Trovare là delle persone delle nostre zone mi faceva tornare con la mente a casa era una dolce sensazione sentire il nostro dialetto e le nostre parole.
Di fronte all’hotel Danieli tra le tele con vedute della città e in mezzo a due candele accese che si stavano sciogliendo per il caldo incontrammo Berto Caregnato.
L’amico pittore di Caltrano, passava l’estate cercando di vendere le sue vedute di Venezia ai turisti e dal movimento che c’era credo ne facesse dei buoni affari.
Era insieme a una bella ragazza Americana che mio cugino notò subito perché ben fornita di attributi. “La xe ben messa davanti e de drio” commentò mio cugino rivolto a me.
Io conoscevo Berto perché ne frequentavo lo studio in cui dipingeva alla Seghetta lungo l’Astico, vicino al Ponte dei Granatieri.
In quelle stanze ci passavo diverse ore e ne ricavavo un’impressione strana, mi pareva di essere immerso in quella atmosfera artistica in cui vivevano i pittori impressionisti che avevo avuto la ventura di studiare a scuola.
Mi piacevano i suoi ragionamenti e quel fare da bohemienne che ne caratterizzava il suo essere.
Era dissacratore, polemico e trasfondeva in grandi quadri a sfondo sessuale la sua carica provocatoria.
Quando mi vide davanti a se, mi fece una bella festa e tutti insieme andammo a prendere qualcosa in una bettola incastrata tra le calli dietro al Danieli  da un certo Pennasa che quando ci sentì parlare, disse di aver vissuto parecchi anni a Schio.
Ci rifocillammo un po’, facemmo confidenza col gestore, ma quando chiedemmo di lasciare qualche fardello da lui, per non trascinarcelo tutto il giorno ci disse di no. Aveva paura che noi potessimo avere qualcosa di proibito e nell’eventualità di una perquisizione della polizia non voleva avere noie. Prendemmo armi e bagagli e tornammo in piazza tra i turisti, i colombi e la calura che ci toglieva le forze.
Qualche signora piena di gioielli ed in abiti eleganti ci guardava come fossimo di un altro mondo il disprezzo era dipinto sui loro visi schifati alla vista di quella corte dei miracoli.
Spray continuava a sbraitare e a lamentarsi per la sete e per la fame, il mal di piedi…..
Grandi gruppi di ragazzi si raccoglievano intorno ad una chitarra a cantare, poi qualcuno tentava una colletta per raccattare qualche lira per le sigarette o per mettere sotto i denti qualcosa. Si spartiva tutto, si fraternizzava , qualcuno amoreggiava senza imbarazzo in mezzo alla gente.
Si comportava “come se il caso non fosse il suo”, in libertà.
Baciarsi in pubblico in quegli anni faceva rumore, era una specie di bestemmia, un mezzo scandalo che attirava gli sguardi allibiti dei passanti.
A  Venezia però era un po’ diverso, si respirava un’aria di maggior tolleranza e di apertura, ma nei nostri piccoli paesi anche prendersi “brasocolo” non era ben visto.
La mia timidezza penosa con cui ero impastato alla vista di quei “sesti”, facevo finta “che il caso non fosse il mio” e mi ritiravo da una parte a guardare il mare che cullava i miei pensieri tra le onde ed il sole.
Quel giorno lo passavamo così, insieme,  cercando  espedienti per  racimolare qualche soldo, cantando, bevendo e fumando.
Mi sentivo poco parte della compagnia; era troppo rigida l’educazione a cui era stato abituato, troppo distante da me i comportamenti di quei ragazzi.
Io ero stato cresciuto a pane e preghiere, al rispetto rigido e ossequioso alle autorità e agli adulti.
Per me erano confini angusti , catene che mi stringevano fino a farmi male, ma che difficilmente riuscivo a superare, anche se c’era l’intenzione.
Allora preso da mille contraddizioni e da tanti sensi di colpa mi sentivo un “baucoto col naso sora la boca”, non spiccavo parola.
Quella sera, cercammo un posto in cui dormire e lo trovammo scavalcando un cancello e sistemandoci sotto delle piante su quello che alla poca luce della notte sembrava un giardino.
Eravamo in quattro cinque persone, e quella notte passò tranquilla; niente carabinieri in giro, niente gente che passava, solo la luna alta  ci colorava  di argento e ci faceva una discreta compagnia.
Poco distante il mare batteva con le onde sulle pietre del molo e il suo profumo si confondeva con i fiori dei giardini, ben diverso dall’odore di terra e di erba che nei mesi di luglio erano nell’aria del mio paese.
Quella notte fu meno dura della precedente alla stazione, perlomeno sotto di noi avevamo un po’ di terra che rispetto al pavimento sembrava un materasso morbido.
Ci svegliammo che il sole già filtrava tra i rami e tentava di asciugare l’umidità che si era depositata sui nostri sacchi a pelo.
Ci accorgemmo allora che eravamo in un cortiletto circondato da caseggiati come falansteri e tante finestre si stavano aprendo una dopo l’altra da cui si affacciavano ancora assonnate le donne con i capelli arruffati.
Qualche grido al nostro indirizzo ci fece capire che dovevamo togliere in fretta le ancore, forse ci avevano presi per “ singani” o per malintenzionati.
Solo quando ci sentirono parlare in dialetto si resero conto che eravamo quasi di loro e non protestarono più di tanto al nostro indirizzo.
Fuori dal giardinetto ci aspettavano i compagni del giorno prima e con loro decidemmo di recarci al Lido dove c’era un grosso gruppo di ragazzi campeggiati sulla spiaggia, un’ostello della gioventù che dava ospitalità a chi voleva trovare un piatto di minestra ed un posto per dormire a buon prezzo, ed un convento di frati che non rifiutava qualcosa da mangiare a chi batteva il portone.
Aspettammo all’imbarco il vaporetto per la traversata dello specchio di mare che separava la città dal Lido ed in breve sbarcammo sull’altra sponda.
Ebbi subito la sensazione di trovarmi sulla terraferma; per le strade circolavano le auto, grandi orti coltivati a verdura somigliavano a quelli di casa mia, e gli alberi lungo le strade facevano somigliare quel posto a certi posti a cui ero legato.
Facemmo subito conoscenza con un gruppo di ragazzi di diversa provenienza, tra i quali anche stranieri. Tra il dialetto, l’Italiano, e qualche parola di Inglese riuscivamo a spiegarci alla meno peggio. Quel giorno decidemmo di andare a pranzare, cioè a prendere un piatto di pasta all’ostello.
L’idea era sempre del “caporion de me cugin”
Quando ci presentammo nella grande sala da pranzo notò che c’erano dei tavoli con due o tre ragazze sole e lui pensò bene di andare a sistemarsi in un tavolo con un gruppo di ragazze Inglesi o Americane.
A me non è che piacesse tanto l’idea e a “Spray” nemmeno, ma conoscendo il soggetto c’era poco da ribattere. Fu così che ci trovammo in questa compagnia più imbarazzati che affamati. Finché quel poco che sapeva di inglese lo sorresse tutto andò liscio, ma quando i discorsi divennero stentati ed i vocaboli cominciarono a scarseggiare, pensò bene di passarmi la patata bollente.
“Lui speak English very well” sparò tutto d’un fiato “sto imbesile” alle ragazze indicando me che ero lì come un pappagallo su un trespolo.
Poco dopo con la scusa di andare in bagno si allontanò e ci piantò là come due cretini.
Le ragazze cominciarono a parlare e a far domande rivolte a me , ma io che sapevo quasi niente della loro lingua restai muto come un deficiente.
Proprio una figura porca.
Per togliermi dall’impaccio feci finta di cadere dalla sedia e nel “rabaltamento” sgusciai via dentro al cesso anch’io.
Rimase solo “Spray” seduto desolatamente solo ed imbarazzato in quella tavola.
Da lontano lo vedevamo “roversare gli occhi” e borbottare da solo, finché non si tolse anche lui da quella morsa.
Per uscire dovendo passare davanti a quel tavolo eravamo “roani” dall’imbarazzo, e sempre colpa del “caporion”
Andammo in spiaggia e quel pomeriggio tra il sole e la stanchezza passò calmo.
Era un angolo sporco e desolato tra immondizie e topi, poco distante su un mezzo casotto offriva le sue grazie un’attempata bagascia.
Erano passati solo due giorni e già io non ne potevo più.
In quel posto ritrovai anche Frida che mi fece “bella siera” e voleva stare vicino a me.
Quando sistemammo i sacchi a pelo per la notte stese il suo vicino al mio.
Stanotte staremo insieme mi sussurrò piano ad un orecchio.
Io che non avevo ben chiaro cosa intendesse dire farfugliai qualcosa di confuso proprio come un “semoto”. Mio cugino che capì subito mi “Strucò de ocio” come a dire: “Beato ti”
Arrivò la sera e poi la notte e ci ritirammo dentro ai sacchi a pelo.
Frida nel buio dopo che qualcuno cominciò a russare, mi disse che voleva dormire dentro al mio sacco a pelo.
Maria Vergine mi prese un panico che sarei scappato chissà dove , e risposi che ero troppo stanco  che avevo mal di testa.
Per fortuna non insistette ancora e prese sonno.

Maurizio Boschiero










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